un uomo …

 

“Un uomo, considerato di per se stesso, ha solo doveri, fra i quali si trovano certi doveri verso se stesso. Gli altri, considerati dal suo punto di vista, hanno solo dei diritti. A sua volta egli ha dei diritti quando è considerato dal punto di vista degli altri, che si riconoscono degli obblighi verso di lui. Un uomo, che fosse solo nell’universo, non avrebbe nessun diritto ma avrebbe degli obblighi.”

Simone Weil – La prima radice

Non ho difficoltà ad immaginare che questa frase della Weil possa suscitare scandalo alle orecchie delle persone che, come tutti noi, non hanno mai avuto dubbi sul fatto di avere dei diritti. La prima volta che la incontrai, in “Immunitas” di Roberto Esposito, ne rimasi sbalordita. Come una rivoluzione copernicana, è il caso di dire che sovverte l’ordine a cui siamo abituati, la certezza di essere, in quanto esseri umani, possessori di diritti. E come tutte le rivoluzioni, occorre un po’ di tempo per essere compresa e assimilata, e perchè possa entrare integralmente in un nuovo orizzonte di senso nei rapporti che intercorrono tra io e l’altro, tra noi e il mondo.

Il titolo originale dell’opera della Weil che uscì nel 1949 era “L’énracinement. Prélude à une déclaration des devoirs envers l’étre humain”, (Radicamento. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano); titolo che, derivato da un lemma dantesco,  fu tradotto in italiano con “La prima radice”. La prima frase è: «La nozione di obbligo sovrasta quella di diritto, che le è relativa e subordinata».

Premetto di non aver ancora approfondito in maniera esauriente le tematiche weiliane, ma forse si potrebbe dire che per la Weil ciò che è stato sradicato, e nello stesso tempo ciò che dovrebbe essere considerata la prima radice, è il fatto di essere esseri umani. L’evidenza fondamentale di essere esseri umani. Ora, non credo che questo si possa negare. Siamo esseri umani. O meglio: noi diciamo di essere esseri umani. Ma ”come” siamo esseri umani? È chiaro che anche la concezione e il significato di ciò che è essere umano, è un concetto storicamente determinato, ma soprattutto è un concetto problematico che si sviluppa su più piani, compreso quello giuridico.

Se pensiamo alla fioritura delle “carte” dei diritti umani, ebbene, queste dichiarazioni d’intenti sono radicati nel concetto di inalienabile diritto dell’essere umano. Eppure non si comprende come mai a questa moltiplicazione di “carte” non corrisponde un altrettanto effettivo diritto pratico degli stessi diritti che vi sono enunciati, come persistesse un cortocircuito fra le dichiarazioni d’intenti e la possibilità che quegli intenti possano essere tradotti e valere sul piano del reale. Perché?

A tal proposito R. Esposito (Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’Impersonale) ci fa notare che l’estensione sempre maggiore del concetto di diritto, che passa dal concetto di cittadino o suddito al concetto di “essere umano” in realtà non può compiersi e si dimostra un impossibile logico, un “monstrum” nelle categorie giuridiche. Se passiamo in rassegna il diritto romano, cristiano e moderno, noteremo con sorprendente chiarezza che il concetto di “persona” non coincide affatto con quello di “uomo”, inteso come singolo vivente, o essere umano.

Nell’antica Roma, la persona (cioè etimologicamente la maschera, il ruolo che ricopre il vivente), era ben di più dell’homo, che a sua volta si distingueva dalla “res”. Ma fra questi tre concetti esiste in realtà una dialettica, sempre reversibile dall’una all’altra dimensione, all’interno del diritto privato che è, in quanto tale, diritto di appropriazione, di uso e di abuso.

Ed è qui che entriamo in pieno nella critica weiliana al diritto romano: “Lodare l’antica Roma per averci trasmesso la nozione di diritto è singolarmente scandaloso. Perché, se si vuole esaminare ciò che tale nozione era in origine, al fine di determinarne la specie, si vede che la proprietà era definita dal diritto di usare e abusare. E in effetti, la maggior parte di quelle cose di cui ogni proprietario aveva il diritto di abusare erano esseri umani.” (La persona e il sacro).

E ancora: “La nozione di diritto, è legata a quella di divisione, di scambio, di quantità. Ha qualcosa di commerciale. Evoca di per sé il processo, l’arringa. Il diritto non si sostiene che col tono della rivendicazione; e quando questo tono è adottato, la forza non è lontana, è subito dietro, per confermarlo, se no sarebbe ridicolo … Il diritto è per natura dipendente dalla forza.” (La persona e il sacro).

Vediamo che la Weil interpreta l’intera storia umana – da Roma allo stato assoluto moderno, al totalitarismo novecentesco – come la tragica conferma di questa inesorabile dialettica tra diritto e forza. Non c’è dubbio che potremmo avere motivi per dissentire dall’interpretazione della Weil; eppure, ancora più chiare parlano le analisi dell’insospettabile opera di Rudolf von Jhering, Geist des rö mischen Rechts, che è stata un vero monumento alla grandezza del diritto romano.

Jhering lo dice senza mezzi termini: il diritto di Roma nasce ancora prima della religione; Roma estrae e cava tutto da se stessa, non rimanda a nulla che non sia compreso nelle linee roventi della propria genesi; così il diritto romano non ha nulla alle spalle che non faccia tutt’uno con la sua medesima forza istitutiva; e mentre gli altri popoli hanno coperto con un manto – mitico, religioso, morale – il sudore e il sangue raggrumati alla fonte del loro diritto, Roma li mostra nella loro nuda evidenza. All’origine dell’ordine giuridico non c’è che la forza di chi lo ha imposto nel contrasto violento con coloro che hanno dovuto subirlo. “Alla forza personale appartiene il mondo, in se stesso il singolo porta il fondamento del proprio diritto, da se stesso deve conservarlo: ciò è la quintessenza del modo romano di intendere la vita.”  (Jhering).

Che tale forza sia “personale”, della persona appunto, e non dell’uomo in quanto essere umano vivente, ci riporta al nucleo della questione ripresa dalla Weil, con intenzioni diametralmente opposte. E ci parla di un diritto che è comunque soggettivo, nel senso stretto che appartiene a colui che ha avuto la forza di strapparlo agli altri facendolo proprio. E che nella Roma antica non esistesse il delitto di rapina, sta a significare che il pigliare, l’afferrare e lo strappare (capere, emere, rapere) stanno alla radice di ciò che è giuridicamente proprio (Jhering); ed esattamente come al romano appare come “proprio” ciò che è manu captum, mancipium – preso con la forza delle armi – la forma prototipica della proprietà legittima è il diritto di preda, o di rapina.

È quindi evidente che all’origine il diritto non “è” ma si “ha”, e che quindi può essere situato e riconosciuto nell’essere uomo come tale, solo come una potenza che l’uomo possiede nel farlo valere.

Questo ci rimanda inevitabilmente a Spinoza, dalla quale la Weil era partita. Per Spinoza il diritto naturale coincide con la potenza che un uomo ha di farlo valere – potenza che non si identificava necessariamente con la violenza, ma con la possibilità di esercitare realmente ed efficacemente una qualsivoglia azione.

Eppure non si può non notare che un’etica fondata sul poter-fare, secondo la quale gli uomini non si equivalgono e si differenziano per la quantità di potenza intrinseca al loro essere ciò che sono, corre il rischio di andare a braccetto con la forza, se non addirittura con la violenza che un individuo riesce ad esercitare per far valere il suo potere. Perciò la Weil si chiede cosa resti di questo “diritto” se esso deve identificarsi, di fatto, con la capacità propria a ciascuno di farlo valere. Se un diritto fosse tale solo in atto, non esisterebbe più alcun diritto, ma solo un mero fatto.

Questo ci consente finalmente di comprendere lo scarto tra il concetto di diritto romano, attaccato duramente dalla Weil, e quello di diritto umano, verso il quale sembra mostrare una significativa apertura. Lo scarto che si apre tra diritto e giustizia, attribuisce ai diritti umani il compito ineludibile “non” di mascherare la forza, ma di dare “veste” giuridica alla debolezza, ossia di essere un baluardo per la vulnerabilità stessa dell’essere umano, quella vulnerabilità che non aveva trovato protezione né espressione, se non parziale e condizionata, nel linguaggio del diritto civile e penale statale.

D’altra parte, se l’individuo è portatore di obblighi ancor prima che di diritti, è solo un soggetto di responsabilità, investito del compito di dover rispondere dell’altro, prima ancora che di sé; e l’unico suo diritto è in fondo quello di dare il suo consenso a sentirsi obbligato al rispetto dei diritti umani, dei diritti, cioè, di ogni essere umano in quanto tale.

Quello operato dalla Weil, allora non è stato, come apparentemente può sembrare, un passo contro i diritti umani, ma oltre essi, soprattutto oltre il linguaggio che, incardinato alla soggettività e nella sua rivendicata autonomia, non è in grado di rispondere dell’altro e di accogliere il richiamo di un’altra legge ancor più cogente, di quella eteronomia che viene prima di ogni autonomia. Simone Weil ha individuato nel concetto eteronomo di obbligo la svolta – una vera rivoluzione copernicana – che potrebbe sovvertire la logica soggettivistico-individualistica dei diritti umani, l’idea di una soggettività capace di assumersi innanzitutto la responsabilità nei confronti dei diritti di ogni altro essere umano, ancor prima di rivendicare i propri.

 

24 pensieri riguardo “un uomo …”

  1. @Milla
    la “soggettività, capace di assumersi innanzitutto la responsabilità nei confronti dei diritti di ogni altro essere umano, ancor prima di rivendicare i propri”, permette al soggetto che la pratica di controllare meglio l’ambiente in cui vive, con buone probabilità di sopravvivenza. I doveri verso gli altri, se messi in pratica, consentono di salvaguardare i “nostri diritti” . Evitare la condizione dell’ “Homo homini lupus” con il rispetto dell’altro e non con la repressione autoritaria, è stata la più grande “furbata” della natura. Questo fatto viene mascherato dai principi etici, a cui aderiamo con convinzione (tramite il sentimento).
    Buona serata.

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    1. @ Cicco: quando dici i “nostri diritti”, penso infatti più ai diritti di tutti, più che ai propri personali, anche se, salvaguardando i diritti di tutti, ci sarà un’ovvia ricaduta sui diritti di ognuno.
      Quando parli della “furbata” della natura, ti riferisci all’istinto alla cura che ogni uomo ha (o dovrebbe avere) verso i figli piccoli, i vecchi genitori, e in generale all’empatia e la pietas verso i suoi simili, se non persino verso ogni essere vivente.
      Però ti faccio notare che la legge del più forte va sempre per la maggiore, e soprattutto sembra che i “nostri” politici si diano particolarmente e globalmente da fare per legiferare a favore dei diritti dei più forti, anziché dei diritti di tutti e dei diritti umani. Liberalismo economico e privatizzazioni: ed ecco dove ci stanno portando! Non ti pare che sotto mentite spoglie imperversi il diritto alla rapina? all’uso e all’abuso? L’ironia è che sono gli stessi politici eletti con libere votazioni democratiche – più o meno …
      Per questo non credo proprio basti pensare che affidandoci agli istinti naturali risolveremo i nostri problemi, anche perché, anche la legge del più forte sembra stare a pieno diritto tra gli istinti naturali. In realtà i principi etici, e le leggi conseguenti, dovrebbero servire proprio a controllare e limitare quegli istinti negativi, e alla fin fine irrazionali, che permettono ai più forti di accumulare ricchezze e di appropriarsi delle risorse. “Homo homini lupus”, non ha smesso di imperversare, anzi, ci siamo dentro in pieno.
      A presto.

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  2. @Milla
    “la legge del più forte va sempre per la maggiore”. Infatti. E porterà al fallimento la specie umana. Finora non è avvento perché con la nascita del sentimento, avvenuto in tempi non remoti, l’essere umano si è riconosciuto in parte nell’ “altro da sè”. Questa conquista di civiltà ha fondamenta fragili. Un pellicola “molto sottile” che ricopre la nostra struttura biologica. Il caso e la necessità hanno selezionato uomini “buoni” (furbata), ma le sfide ambientali sono, per certi aspetti, terrificanti. Riuscirà a riprodursi l’ “homo gentilis” oppure si estinguerà? Speriamoci, ma non troppo.
    Buona serata.

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    1. Mi piace questo che chiami “homo gentilis”: la prima volta che sento questa parola.
      Ma non credo che ci sia abbastanza tempo per attendere la sua riproduzione biologica.
      Piuttosto è sempre e ancora, soprattutto adesso – a meno di poter diventare tutti buddisti – che urge la necessità di una rivoluzione etica.
      Solo che è una necessità che costa parecchio, in termini di ego, e amor proprio, che è la zavorra che ci tiene legati agli aspetti peggiori della necessità biologica.
      Buona giornata a te, Cicco.

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  3. più che di obbligo, in presenza della Weil userei il termine: necessità.
    approfondire il suo pensiero significa calarsi in un abisso alle cui sponde è bene ancorarsi saldamente.
    ciao cara Milena
    C.

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    1. è vero Carla. Però quella della Weil non è una necessità biologica, ma etica; e per la quale possiamo, se vogliamo, essere liberi di scegliere.
      Ma sai che domenica, mentre mi documentavo ho trovato un articolo di Fabio Brotto sulla Weil di qualche anno fa, dove sia tu che Elio avevate commentato. Mi sembra che tu dicevi di aver letto i quaderni della Weil. Anch’io li avevo letti anni fa. Ma questo altro suo aspetto etico-politico, non l’avevo ancora approfondito, ma nemmeno adesso, veramente. Solo che mi sembra che più che calarsi, con lei si tratta di ascendere .. un abisso alla rovescia .. sì, mi pare così.
      Ne approfitto già da qui per congratularmi per il tuo nuovo blog: è molto bello e la pelle dell’elefante in primo piano mi piace molto.
      E davanti alle tue ultime poesie, riesco solo a stare in silenzio, come davanti alla rosa.
      E’ anche per questo che commento poco.
      Ciao Carla. Buona giornata.

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      1. Grazie carissima, il silenzio è sacro !
        è vero, da Fabio Brotto ogni post sulla Weil per me era come cibo sull’amo…mi attirava l’ermetismo delle sue sentenze…addentrandomi nei quaderni ho respirato le sue contraddizioni
        e ho capito che bisogna stare attenti a non inghiottire proprio tutto.

        a presto

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  4. @Milla
    “urge la necessità di una rivoluzione etica” …
    Concordo. Ma purtroppo non dipende da noi (come singoli), ma dalle mutazioni della nostra specie. Resta il fatto che l’etica è sorretta da un finalismo sotto-traccia: salvare l’umanità con i buoni sentimenti. Il caso e la necessità diranno (ai posteri) se l’evento potrà realizzarsi.
    Buona serata.

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    1. Ecco, io non mi capacito che si possa pensare che non dipenda anche da noi, come singoli, al di là del mero dato biologico; e che tutto è nelle mani di un destino che ci sovrasta.
      Come se “anche” ogni azione di ogni individuo non creasse il futuro che ci sarà. Da parte mia sono invece ancora della vecchia idea che avremo anche il futuro che ci saremo meritati. E che quindi, se non in modo assoluto, almeno per buona parte ne siamo responsabili.
      La determinismo è in difetto a dire che siamo determinati, come l’indeterminismo è in difetto a dire che non lo siamo. Perciò non c’è niente di certo, tranne che in ogni momento siamo di fronte ad una scelta. Per questo, da parte mia preferisco guardare entrambi i lati della medaglia, e per quanto riguarda le mie responsabilità, seppure microscopiche, non rassegnarmi e fare la mia parte. (Una faticosa paideia non ti dice niente?)

      “caso e la necessità diranno (ai posteri) se l’evento potrà realizzarsi”
      Già, ma se i posteri non ci saranno non ci sarà più niente da dire. The rest is silent? Oppure scenari simili a “La strada” di MacCarthy?
      Buona giornata

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  5. @Milla
    “fare la mia parte”…
    Giusto. Ognuno deve fare la “sua” parte. Anch’io mi applico per questo. Ma “quella parte” è una goccia nel mare. Non esiste un controllo centralizzato che coordini “tutte le parti” (pensa a come è messa l’Europa oggi, che ha appena 27 membri). Siamo scarsamente influenti sugl’ “altri da noi”. Proiettare sugl’altri (7 miliardi d’individui) le nostre convinzioni, pensando di coinvolgerli in
    un progetto di morale/benessere collettivo, è pura utopia. L’utopia scalda i cuori, è spesso un antidoto contro la disperazione, ma è destinata al fallimento. Nella Storia le utopie hanno avuto sempre le gambe molto corte. La cosa mi rattrista e non ci resterebbe che piangere. Reagendo al meglio, però, possiamo comunque vivere secondo il motto “male non fare paura non avere”.
    Tu dici:” .. se i posteri non ci saranno non ci sarà più niente da dire ..”. Infatti, le cose andranno proprio come tu temi. Prima o poi la specie umana farà naufragio (si estinguerà).
    Dura lex, sed lex.
    A presto.

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    1. Prima o poi di sicuro, su questo non ci sono dubbi. La specie umana è un quasi nulla nell’universo. E anche la vita su questa terra è frutto, non credo del caso, ma di fortunate coincidenze. Fatto sta che i livelli di grandezza sono diversi: quello che per l’universo (o visto con gli occhi di un dio indifferente, o della natura non meno indifferente) è quasi nulla, per noi umani è tutto.
      Conosci quel motto che dice: Mors certa, hora incerta?
      Se questo è vero per ognuno di noi, dev’essere vero anche per l’intera specie umana.
      Però questo ci consente di continuare non solo a sperare, ma di continuare anche di cercare di rimediare, e fare progetti in tal senso.
      Ri-mediare è un verbo che mi piace molto. Dà il senso di riprovare a cercare la via di mezzo, cercando appunto di mediare tra le parti e tra gli opposti e tra le contraddizioni. Un lavoro faticoso, ma che non deve interrompersi.
      Nel corso della storia ci sono state tante e tali tragedie e rivolgimenti, che forse il peggior difetto di noi uomini di questo tempo, è di esserci cullati in un benessere davvero fuori dal comune, credendo, confidando ingenuamente nel fatto che questo benessere avrebbe potuto continuare indefinitamente.
      Eppure, mentre “crescevamo” e costruivamo senza limiti, gettavamo i semi della distruzione di questo nostro stesso mondo. Il mondo come lo abbiamo fatto e come lo conosciamo, ma che non è l’unico mondo possibile, e nemmeno il migliore. E’ il modello di sviluppo che non funziona.E sì, ora sembra che siamo proprio in un bel casino.
      Ma immagino che sai meglio di me tutte queste cose.
      A presto. Milena

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    1. è vero. Avevo tradotto a naso, e ho sbagliato. Ma anche il periodo seguente, non è corretto. Perchè ho letto, dopo, che il suo concetto di sradicamento è tutt’altra cosa, visto che sul “radicamento” si esprime in questo modo:

      “Il radicamento è forse l’esigenza piú importante e piú misconosciuta dell’anima umana. È tra le piú difficili a definirsi. Mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro, l’essere umano ha una radice. Partecipazione naturale, cioè imposta automaticamente dal luogo, dalla nascita, dalla professione, dall’ambiente. Ad ogni essere umano occorrono radici multiple. Ha bisogno di ricevere quasi tutta la sua vita morale, intellettuale, spirituale tramite gli ambienti cui appartiene naturalmente.”
      (La prima radice)

      Ora se non so se rivedere tutta quella parte … non so. Oppure pensare un post sull’argomento. Vedrò. Certo è che il radicamento è andato proprio a ramengo.

      Ti ringrazio Alvise, probabilmente sei forse l’unico che si è preso la briga di leggere questo post seriamente.
      Errare umano est, perseverare diabolicum (non so se si crive così, boh?).
      Se ti capita di passare di qua, e accorgerti che ho fatto errori (anche piccoli, e non madornali come questo) se me lo fai notare sei un amico! Va bene?
      Ciao, ancora grazie.
      milena

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  6. @Milena
    La tua diagnosi è assolutamente condivisibile. Siamo (tutti) su un treno lanciato a forte velocità verso il nulla. Qualcuno gozzoviglia, qualcuna fa il tiro al bersaglio con i propri simili, qualcuno impreca e si straccia le vesti, qualcuno resta basito con gli occhi sbarrati, qualcuno si fa il segno della croce e prega, qualcuno, di buona volontà, cerca di dare una mano a chi gli sta vicino e sorride, qualcuno progetta “un mondo alternativo” che possa ri-solvere l’assurda contingenza. Qualcuno fa il filosofo e si domanda:”Perche le cose sono?”, ma poi si addormenta.
    Chi resta sveglio si chiede: Cosa potrò fare di “buono”, se mi sarà concesso un altro giro di giostra?
    Dopo tutto farsi un “buon” minestrone caldo e assaporarlo lentamente, mentre laggiù fiocca la prima neve, a me sembra un’idea che rincuora l’anima.
    A presto.

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