philía – φιλìά

Una mia amica qualche giorno fa mi chiedeva in che modo scelgo i libri, perché li scelgo, con quale criterio, o da cosa mi lascio guidare nella scelta. Le ho risposto che è un po’ come seguire un percorso, passo passo, così che a un passo segue l’altro, anche se non so sempre di preciso dove voglio o devo andare; ma che a volte mi capita di trovare per caso sugli scaffali della biblioteca esattamente il libro che avrei cercato se solo avessi saputo di non  poterne fare a meno. Sapete come accade, lo sguardo scorre sui libri esposti, sulle copertine, sui titoli, gli autori, e senza starci troppo a pensare, la mano lo accoglie nello stesso modo in cui coglierebbe un frutto da un ramo. “La mia mano è più intelligente di me”, ho aggiunto scherzando, “sa meglio di me ciò di cui ho bisogno” – mentre io ho quasi il vago sospetto che esista una qualche misteriosa forza d’attrazione. Così è stato quando mi son portata a casa questo libricino, pensando, “magari gli darò un’occhiata”, e invece è stato un ri-trovamento  formidable.    “Socrate”, è un saggio di Hannah Arendt in cui sviluppa la sua tesi, ossia che a partire dal processo e dalla morte di Socrate, Platone tradì il suo maestro, disprezzò le doxai (le opinioni) dei cittadini e le sostituì coi principi immobili e assoluti che “il filosofo” aveva scoperto nella contemplazione solitaria delle idee; e che questo evento diede inizio a un conflitto millenario tra politica e filosofia.
Sebbene sembri una storia lontana, ho sentito dire che la riflessione filosofica scorre sotterranea in ogni dove; che tutti i cambiamenti che si son dati nella storia sono stati provocati anche dallo sviluppo della filosofia. Nella nostra vita quotidiana, ciò che oggi chiamiamo “politica”, o che Arendt chiamava “affari umani”, non sono che il risultato di centinaia d’anni di riflessioni filosofiche e di interpretazioni del reale – anche se le scelte che dobbiamo affrontare ogni giorno sono sempre sostanzialmente le stesse.  Non è improbabile, allora, che una certa diffusa concezione platonica della politica, nel corso della storia, possa aver condannato all’insignificanza il dato della pluralità degli uomini, spianando la strada a totalitarismi di diverso colore. Diversamente, per Arendt, la condizione umana della pluralità, “il fatto che gli uomini e non l’Uomo, vivono sulla terra e abitano il mondo […] e nessuno è mai identico a nessun altro che visse o che vivrà”, è “la condizione di ogni vita politica“. Ma soprattutto, come vedremo, “Socrate cercò di fare dei cittadini ateniesi degli amici“. Molto altro e buona lettura.

 

«Senza amici nessuno sceglierebbe di vivere,
anche se possedesse tutti gli altri beni»
[Aristotele, Etica Nicomachea, 1155 a1 – 6]

 

 

Matisse, The snail, 1953

 

 

«L’abisso tra filosofia e politica si apre storicamente con il processo e la condanna di Socrate, che nella storia del pensiero politico rappresenta il punto di svolta analogo a quello rappresentato da Gesù nella storia della religione. La nostra storia di pensiero politico ha inizio quando, con la morte di Socrate, Platone perde ogni speranza nella vita della polis e giunge a mettere in dubbio anche i fondamenti dell’insegnamento socratico.

Il fatto che Socrate non fosse riuscito a persuadere i giudici della propria innocenza e dei propri meriti, che erano così ovvi per i migliori cittadini ateniesi e per i giovani, aveva indotto Platone a dubitare del valore della persuasione. Per noi è difficile cogliere l’importanza di questo dubbio, perché “persuasione” è una traduzione molto debole e inadeguata dell’antico peithein, la cui rilevanza politica è indicata dal fatto che Peithō, la dea della persuasione, aveva un tempio a Atene. Per gli ateniesi la persuasione, peithein, era la forma specificatamente politica del discorso. Esso andavano fieri del fatto che, diversamente dai barbari, sbrigavano gli affari politici in forma discorsiva e senza costrizione, e per questo consideravano la retorica, l’arte della persuasione, come l’arte più elevata e più autenticamente politica.

Meditando sulle implicazioni del processo di Socrate, Platone giunse a formulare sia il suo concetto di verità, che intese come l’esatto opposto di opinione, sia la sua concezione di una forma specificatamente filosofica del discorso, il dialeghesthai, che intese come l’esatto l’opposto della persuasione e della retorica. La principale distinzione tra persuasione e dialettica consiste nel fatto che la prima si rivolge sempre a una moltitudine (peithein ta plētē [persuadere la moltitudine]), mentre la seconda è possibile solo come dialogo tra due (autos autō [come accade anche nel dialogo tra sé e sé]).

In questa prospettiva l’errore di Socrate fu quello di rivolgersi ai suoi giudici in forma dialettica, il che spiega perché non riuscì a persuaderli. D’altra parte, egli restò entro i limiti dell’arte della persuasione, e per questa ragione la sua verità divenne un’opinione tra le altre, senza valere neanche un po’ di più delle non-verità dei suoi giudici. Socrate, cioè, continuò ostinatamente a discutere con i suoi giudici nello stesso modo in cui era solito parlare con qualunque cosa con i cittadini ateniesi, uno alla volta, o con i suoi discepoli; e credette che in questo modo sarebbe riuscito a persuadere gli altri.

Tuttavia, per Platone la persuasione non proviene dalla verità, proviene dalle opinioni, e solo la persuasione valuta e sa come trattare la moltitudine. Per lui, persuadere la moltitudine significa imporre alle molteplici opinioni l’opinione di uno solo: la persuasione non è l’opposto del dominio mediante la violenza, ne è solo un’altra forma. I miti dell’Aldilà con cui Platone conclude tutti i dialoghi politici, a eccezione delle Leggi, non sono né verità né opinioni pure e semplici: sono progettati come racconti in grado di far paura, cioè un tentativo di usare violenza a parole (nelle Leggi Platone può fare a meno di un mito conclusivo di questo tipo perché le prescrizioni dettagliate, e il catalogo ancor più dettagliato delle punizioni, fanno sì che la violenza a parola non sia più necessaria).

È in questo contesto che Platone poté progettare la sua tirannia del vero, secondo cui la città non dev’essere governata dal bene temporale, di cui gli uomini possono reciprocamente convincersi, bensì della verità eterna, che non può essere oggetto di persuasione.

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Anche se è più che probabile che Socrate sia stato il primo ad usare sistematicamente il dialeghesthai (il discutere di qualcosa con qualcuno), probabilmente non lo considerò l’opposto e nemmeno la controparte della persuasione, e di certo non contrappose i risultati di questa dialettica alla doxa, l’opinione.

Per Socrate, come per i suoi concittadini, la doxa era la formulazione discorsiva del dokei moi, di ciò che “mi pare” [appears to me]. Questa doxa non riguardava quel che Aristotele avrebbe chiamato eikos, il probabile, i molti verisimilia (distinti per un verso dall’unum verum, l’unica verità, e, per altro, dalle falsità infinite, i falsa infinita), ma riguardava la comprensione del mondo così come “si apre a me”. Non era fantasia soggettiva e puro arbitrio, ma neanche qualcosa di assoluto e valido per tutti. L’assunto è che il mondo si apre in modo diverso per ogni essere umano, a seconda della posizione che ciascuno occupa in esso. La “medesimezza” del mondo, il suo essere-in-comune (koinon, come avrebbero detto i Greci: comune a tutti), ovvero la sua “obiettività” (come diremmo noi, nella prospettiva soggettivistica della filosofia moderna), risiede nel fatto che lo stesso mondo si apre a ognuno, e che, malgrado tutte le differenze tra gli uomini e tra le loro posizioni nel mondo, e di conseguenza tra le loro doxai, “io e te, entrambi, siamo umani”.

La parola doxa non significa solo “opinione”, ma anche “splendore”, “fama”. In quanto tale si riferisce al campo politico, che è la sfera pubblica in cui ciascuno può apparire e mostrare chi egli sia. Per i Greci, sostenere una propria opinione faceva parte della capacità di mostrarsi, di essere visti e sentiti dagli altri. Questo era il vero grande privilegio legato alla vita pubblica, un privilegio che veniva a mancare nella sfera privata della vita domestica, in cui nessuno può vederci o sentirci (i membri della famiglia, la moglie e i figli, gli schiavi e i servi, non erano evidentemente considerati del tutto umani). Nella vita privata restiamo nascosti e non possiamo né apparire né risplendere; lì nessuna doxa è possibile. E Socrate, che aveva rifiutato incarichi e onori pubblici, non si era mai ritirato a vita privata; al contrario, si era trasferito sulla piazza del mercato, nel bel mezzo delle doxai, tra le opinioni.

Socrate chiamava maieutica l’arte dell’ostetricia, ciò che più tardi Platone avrebbe chiamato dialeghesthai. Voleva infatti aiutare gli altri a partorire i propri pensieri, voleva aiutarli a trovare la verità nella doxa. Ogni esser umano ha la propria doxa, la propria apertura al mondo, e per questo Socrate doveva sempre cominciare con delle domande: non potendo sapere in anticipo quale fosse il dokei moi dell’altro (il “mi pare” dell’altro), faceva appunto domande per capire quale fosse la posizione del suo interlocutore nel mondo comune. D’altra parte, proprio come nessuno può sapere in anticipo la doxa altrui, così nessuno può sapere da solo, e senza sforzo ulteriore, la verità inerente alla propria opinione. Socrate voleva portare alla luce la verità che ognuno potenzialmente possiede. Se restiamo fedeli alla sua stessa metafora, la metafora della maieutica, possiamo dire che Socrate voleva rendere la città più veritiera facendo partorire a ogni cittadino la propria verità. Il metodo per farlo è la dialeghesthai, ma quest’arte dialettica, che porta alla luce la verità, non distrugge la doxa, l’opinione; al contrario, ne rivela la veridicità.
Il compito del filosofo, allora, non è quello di governare la città, ma quello di essere il suo “tafano”, di rendere i cittadini più veritieri. […]

Tuttavia, la differenza con Platone è decisiva: Socrate voleva migliorare non tanto i cittadini, ma le loro doxai, che costituivano la vita politica alla quale anche lui faceva parte. Per Socrate la maieutica era un’attività politica, un “dare-e-ricevere” basato su una rigorosa uguaglianza: i suoi frutti non potevano essere misurati in termini di risultati, in base al raggiungimento di questa o quella verità generale.

Ovviamente questa maniera di dialogare, che non ha bisogno di una conclusione per avere un significato, è la modalità più frequente e appropriata del discorso tra amici. L’amicizia, in effetti, consiste in larga misura di discussioni di questo tipo, riguardanti qualcosa che sta “tra” gli amici, qualcosa che gli amici hanno “in comune”. Per il solo fatto di discuterne, quel qualcosa che sta tra loro diviene ancora più comune. Non solo guadagna una sua specifica articolazione ma si sviluppa e si espande, finché, col passare del tempo e della vita, giunge a formare un piccolo mondo a parte, che viene condiviso in amicizia.

In altri termini, politicamente parlando, Socrate cercò di fare dei cittadini ateniesi degli amici; e questo era perfettamente comprensibile nella polis, dove la vita era una gara intensa di tutti contro tutti, un aei aristeuein, un mostrare incessantemente di essere migliori di tutti. Il bene comune era costantemente minacciato da questo spirito agonale, che avrebbe portato le città-stato greche alla rovina perché, da una parte rendeva quasi impossibili le alleanze, e, dall’altra, avvelenava le politica interna con l’invidia e l’odio reciproco (l’invidia era il vizio nazionale dell’antica Grecia). In effetti, l’essere in comune del mondo politico era costituito dalle mura della città e dai confini delle sue leggi; non era, perciò, visto o vissuto nelle relazioni tra i cittadini, cioè nel mondo che giace tra loro, ed è comune a tutti, aprendosi in modo differente a ciascuno. Se vogliamo usare la terminologia di Aristotele per comprendere meglio quella di Socrate – e gran parte della filosofia aristotelica, soprattutto quando si oppone apertamente a Platone, risale a Socrate – possiamo citare quella parte dell’Etica Nicomachea in cui Aristotele spiega che una comunità non è composta da uguali, ma, al contrario da persone differenti e disuguali.

Per Aristotele la comunità viene in essere attraverso l’isasthēnai, il rendere uguali [ossia il portare a un livello di uguaglianza, l’equiparare]. Un processo di eguagliamento avviene in ogni scambio economico, per esempio tra un medico e un agricoltore, e in questo caso esso si basa sul danaro. A livello non economico ma politico, l’uguagliamento è “amicizia”, philía  [φιλìά]. (*)

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Matisse, La Danse (I), 1909

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Parlare di un processo di uguagliamento che ha luogo nell’amicizia non significa dire che gli amici diventano uguali, ma significa dire che gli amici diventano partner uguali in un mondo comune, ovvero che insieme formano una comunità [di pari]. Questo è il risultato dell’amicizia, e ovviamente la concezione dell’amicizia in termini di uguagliamento implica un riferimento polemico alla crescente differenziazione dei cittadini in un mondo agonale. Infatti Aristotele conclude: “pare che sia l’amicizia a tenere insieme le comunità”, e non la giustizia (come Platone, potremmo aggiungere aveva invece sostenuto nella Repubblica, il grande dialogo sulla giustizia). Aristotele afferma poi che l’amicizia è migliore della giustizia, perché tra amici la giustizia non serve.

L’elemento politico dell’amicizia consiste dunque nel fatto che ogni amico può comprendere, grazie al dialogo veritiero, la verità insita nell’opinione dell’altro. Più che l’altro in quanto persona, un amico comprende come in quale e specifica articolazione il mondo comune appare all’altro, che resta pur sempre disuguale e differente. Questa forma di comprensione, è la forma per eccellenza della saggezza politica. […] al tempo stesso, questa virtù consiste nella capacità di comunicare fra gli altri, per rendere evidente l’essere-in-comune del mondo. Se tale capacità di comprensione – con la capacità di azione che essa può ispirare – dovesse emergere senza l’aiuto dell’uomo politico, ogni singolo cittadino dovrebbe potersi esprimere bene quanto basta per mostrare la sua opinione nella sua veridicità e per per poter comprendere i propri concittadini.

Socrate sembra aver creduto che la funzione politica del filosofo fosse quella di aiutare a stabilire un mondo comune di questo tipo, costruito sulla capacità di comprensione propria delle relazioni tra amici, in cui non c’è bisogno che qualcuno stia al comando.

A tal fine Socrate si affidava a due massime, la prima contenuta nelle parole dell’Apollo delfico, Gnōthi sauton, “conosci te stesso”, e l’altra riportata da Platone (ma più tardi anche da Aristotele): “È molto meglio essere in disaccordo col mondo intero, piuttosto che, essendo uno, essere in disaccordo con me stesso”. (**) La seconda è l’affermazione del convincimento socratico che la virtù possa essere insegnata e appresa».

[liberamente tratto da: Hannah Arendt, Socrate, Raffaello Cortina Editore; pagg. 25-40]

 

continua …

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note:
 (*) philía – φιλìά – aveva un ambito semantico molto più vasto di quello che ha in epoca contemporanea. Infatti, esso indica qualunque forma di affetto fra esseri umani, dall’attrazione erotica che si prova verso un’altra persona, all’affetto tra genitori e figli, dall’amicizia tra privati, alla solidarietà tra concittadini. Va sottolineato che, per Aristotele, l’amicizia civica rappresenta una forma importante di amicizia; essa infatti sta a fondamento della polis e, concretamente, è data dalla solidarietà che ciascuno prova nei confronti dei propri concittadini, con i quali collabora alla realizzazione del “bene comune”.
(**) Si tratta in realtà di una sintesi di Platone, Gorgia, 482 b7 – c3: “Personalmente, amico mio, preferirei suonare una lira scordata o dirigere in coro stonato e dissonante, o che un’intera folla si esprimesse in modo diverso dal mio [mē omologhein moi] e mi contradicesse, [enantia leghein], piuttosto che, essendo uno [hena onta], trovarmi in disaccordo [asympphōnon einaì] e in contraddizione [enantia leghein] con me stesso”.

 

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Matisse, Music, 1910

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5 pensieri riguardo “philía – φιλìά”

  1. Riuscirò mai a dare una forma intelleggibile al tumulto che si agita nella mente? Ci provo..

    Premesso che anche a me capita di scegliere i libri nel modo che tu hai descritto (cominciò così con i primi libri di Nietzsche, e proseguì allo stesso modo con i libri seguenti), sento che non è giusto separare il metodo socratico dalla concezione platonica del mondo. I due mi paiono strettamente correlati, e probabilmente l’uno non è separabile dall’altra. Perché se è vero che la terra è abitata dagli uomini e non dall’uomo, è pur vero che i singoli uomini hanno in sé il concetto di uomo (che serve loro per comunicare, come accade del resto per tutti gli altri concetti, che non si riferiscono ad una particolare determinazione, ma all’astrazione che da una particolare manifestazione emerge). Concetto che viene declinato ed inteso in vari modi, ma sempre riconducibile ad una matrice, che varia, a sua volta, a seconda del tempo e dello spazio. Vale a dire a seconda delle culture e dei luoghi.
    E la vita politica, che si basa sul dibattito e sul confronto tra uomini, non mira ad altro che a generare valori condivisi, verità condivise, che non sono altro, alla fine, che idee platoniche. Assoluti relativi, mi verrebbe da dire. Assoluti, perché valgono fintantoché c’è nei loro confronti un accordo convergente, relativi, perché non sono eterni, ma possono essere posti nuovamente in discussione, rinegoziati.
    Credo allora che non si possa fare a meno di ciascuna delle due posizioni, ed è forse per questo che nessuna delle due ha veramente perso terreno nel corso dei secoli, essendo ambedue fondamentalmente consustanziali alla vita, che non si ciba di una sola tesi, ma sempre, mi sembra, di una continua interazione tra almeno due poli, sul filo della ricerca della verità.

    (pensieri a caldo sulla tua premessa)

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    1. È sicuro che non possiamo che ragionar per concetti e categorie. Però dobbiamo tener presente che lo stiamo facendo, e che ogni essere umano, ogni essere vivente, non è riducibile ad una categoria. Nota per esempio com’è facile che da qualche tempo si parli di “musulmani”, o “islamici”; oppure quando si parla di “ebrei” eccetera. O le “donne”, o i “gay”. Ma anche i “cristiani”. Poi vai a vedere, e ognuno è diverso dall’altro. Pensa in un modo diverso, ha idee diverse, di fatto è un altro.
      Del resto anche quando diciamo “uomo”, magari ognuno di noi ha presente un certo tipo di uomo, che poi, di solito è ciò che corrisponde alla propria esperienza di “uomo”, che per la maggior parte è anche quello che la società in cui vive gli ha insegnato: fin da piccolo (la famiglia, la scuola, la società) ti impone un certo tipo di uomo, e non un altro. Poi ovviamente le cose cambiano, e anche le società cambiano e si evolvono. Però le resistenze sono notevoli. Sono gli schemi mentali, i patterns.
      Più che altro, credo che dovremmo tener presente che l’obiettivo di Arendt era di indicare un modo di intendere e gestire la politica, ossia la vita della polis, che non conducesse a un’idea di tipo totalitario – al pensiero unico. Non so quale percezione tu abbia della situazione politica attuale, a me pare che si son fatti molti passi indietro, o di male in peggio.
      È anche vero che in società complesse come le nostre la democrazia è difficilmente attuabile se non è rappresentativa – perciò credo sia più “facile” tentare di mettere in pratica la democrazia nelle piccole realtà, nei piccoli comuni. Qualche volta succede.
      Ma è ormai appurato che i partiti politici sono diventati degli accentratori di potere, e non a vantaggio del popolo, ma del capitale, degli interessi economici, soprattutto di coloro che hanno maggiori “interessi”..
      Molti di quei “valori condivisi” di cui parli, più che condividerli siamo costretti a subirli. Basti dire come è strutturata l’Unione Europea, e come ci hanno imposto l’euro, senza alcun serio dibattito politico nel merito. Altri, molto in alto, hanno deciso per noi, e continuano a decidere sopra le nostre teste, senza nemmeno essere stati votati. Se sono questi i “valori condivisi” …. (io non li condivido)
      L’accordo convergente, diventa un problema ed è sostanzialmente fittizio se i cittadini sono mantenuti nell’ignoranza, dal momento che il pensiero unico è anche l’unico ad essere propagandato dai mezzi in mano alla classe dominante. Ci sono eccezioni, ovviamente, ma non riescono ad emergere, a creare una massa critica sufficiente ad incidere sulla realtà, a cambiare le cose.
      Un altro problema è che non a tutti interessa cercare la verità: semplicemente, a molti interessa soltanto imporre la propria, e hanno imparato a farlo molto bene. E soprattutto, riescono a farlo, non sempre perché sono “migliori”, ma perché hanno (accumulato) più potere.
      Comunque, se puoi, leggi il testo di Arendt, che è davvero molto bello (a mio parere).

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      1. Non ho ancora letto il testo della Arendt, ma lo farò. Relativamente alle tue osservazioni condivido praticamente tutto, tranne forse l’idea che nei piccoli Comuni sia più facile mettere in pratica la democrazia. Perché nelle piccole realtà, da quanto ne so, è più facile che attecchiscano (invece) clientelismi e voti di scambio.

        Comunque certo non è un bel periodo. Alcuni anni fa, mentre guidavo ascoltando la radio, rimasi molto colpito dalle parole di un magistrato, di cui purtroppo non ricordo più il nome. Disse: “le buone leggi sono quelle che migliorano la vita dei cittadini”. Un’idea semplice che dovrebbe guidare sempre la penna del legislatore, che però, di questi tempi, sembra invece si dia molto da fare per varare leggi che vanno nella direzione opposta.

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  2. Credo inoltre che uno degli intenti di Arendt, quando oppone queste due figure, Socrate e Platone, in modo così netto, è quello di indicare quale dovrebbe essere il miglior filosofo, o il miglior maestro: ossia colui che ha a cuore che la verità di ognuno possa essere espressa rivista e migliorata. Diversamente descrive Platone come il filosofo che, ritirandosi in contemplazione, raggiunge in solitudine la “Verità”, cosa per cui lui solo sa cosa è il Bene; mentre i cittadini possono starsene ebetamente a guardare lo schermo nel buio della caverna. Quindi, credo che la preoccupazione di Arendt è concentrata sul “come” formare dei buoni cittadini che possono tra di loro cercare e attuare il bene comune. E non, come vorrebbe Platone, dire a i cittadini cos’è il Bene: perché in questo caso, non sarebbero dei cittadini ma dei sudditi. Del resto è noto che la Repubblica di Platone delinea proprio la tirannia del Bene, e difatti la tesi di Arendt non è poi così originale.
    Ciò che mi piace, è soprattutto quando parla dell’amicizia. Vale a dire: come riuscire a fare degli esseri umani degli amici… eccetera 🙂

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