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(…) Questo l’itinerario di maturazione dell’eroe goethiano Wilhelm Meister dalla vocazione al progressivo aprirsi al mondo in cui qualcosa necessariamente viene sacrificato e qualcos’altro si consolida, cosicché il protagonista non si sente “più al bivio, bensì alla meta”, pur non osando “fare l’ultimo passo”, giacché non ne “ha il coraggio”. E’ questo uno dei tanti casi in cui “quando tutto il peso delle ragioni che ci hanno convinti è stato messo su un piatto della bilancia, allora, il contrappeso ricade sull’altro lato e ostacola la decisione”. A questa vocazione devono seguire gli anni dell’apprendistato dove l’eroe raggiunge la sua meta, come commenta Schiller in una lettera a Goethe del luglio 1796: “da un ideale vuoto e indeterminato egli entra in una vita attiva e cosciente, ma senza perdere nulla della sua primitiva forza idealistica”, “acquista determinatezza senza perdere la sua bella determinabilità; che apprenda a limitarsi, ma in quella stessa limitazione ritrovi per mezzo della forma, un passaggio verso l’infinito”. Wilhelm, nel suo vagabondare e nel suo apprendistato, è stato condotto proprio là “dove voleva rifugiarsi”, dove per lui si è dischiuso, nell’intrecciarsi di incontri e relazioni, quanto prima era solo chiuso nel suo cuore. È il germogliare nell’individuo di un vincolo, andato a fondo nella dolorosa infermità etica della libertà negativa, il ritrovare quanto lo unisce all’altro, qualcosa di sacro che risuona nell’unità partecipata della comunità umana.
Tratto da: “Labirinti e costellazioni: un percorso ai margini di Hegel” di Rossella Bonito Oliva. (pag.51)
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