mo.mo*

* monografia monoclonali

Ho raccolto in questa pagina i post pubblicati dal Prof. Gabriele Costantino – direttore del Dipartimento di Food and Drugs presso l’Università di Parma e docente ordinario di chimica farmaceutica presso lo stesso ateneo – sull’argomento “anticorpi momonoclonali” a partire dal 17 dicembre 2020 ad oggi, in particolare sugli effetti clinici e i risultati del trial del Bamlanivimab di Ely  Lilly. Varie ed eventuali.

 

INDICE 

In apertura l’ultimo aggiornamento.

  • 21 gennaio 2021 – Analisi finale del trial Ely Lilly sull’impiego del Bamlanivimab su JAMA.

A seguire gli articoli pubblicati dal 17 dicembre in poi.

  1. 17 dicembre 2020 –  link all’articolo “Vi spiego perché gli anticorpi monoclonali non sono (ancora) una ‘cura miracolosa’ contro il coronavirus”
  2. 18 dicembre 2020.
  3. 22 dicembre 2020.
  4. 23 dicembre 2020 – Sembrava fosse un cavallo invece era un calesse.
  5. 24 dicembre 2020.
  6. 25 dicembre 2020 – Tutto quello che avreste voluto sapere sul perché (questi) anticorpi non funzionano e nessuno vi ha mai detto.
  7. 29 dicembre 2020 – Omeopatia, stregoneria, farmaci, e il declino della forma.
  8. 30 dicembre 2020 – Nuove dal fronte degli anticorpi monoclonali.
  9. 3 gennaio 2021 – Dosis sola facit … (Paracelso XIV secolo)
  10. 11 gennaio 2021 – Qualche approfondimento sull’approvazione dei farmaci.
  11. In attesa: (forse) la storia continua…
Se non avete il tempo di leggere (scherzo) proprio tutto (o infarinarsi, ché ‘studiare’ è parola grossa), consiglio la lettura dell’ultimo aggiornamento, e degli articoli n.1, 6, 7 e 10.  Il n. 7 – Omeopatia, stregoneria, farmaci, e il declino della forma –  è caldamente consigliato.  Mentre i n. 4 e 5 trattano dell’inchiesta e relativa campagna a sostegno dell’autorizzazione all’uso sperimentale del farmaco da parte de Il Fatto Quotidiano, ripresa  da alcuni esponenti politici, in primis Matteo Salvini, ma poi anche Librandi di Italia Viva e dall’associazione Patto Trasversale della Scienza e dal blog Pillole d’Ottimismo. Ergo: bamlanivimab è stato oggetto di battage pubblicitario, inchieste giornalistiche, grida indignate, eccetera.
BREVE RIASSUNTO:  Lo scorso 21 gennaio sono stati pubblicati in JAMA dati parziali in press-release per la combinazione bamlanivimab-etesevimab. Sicuramente lo studio completo darà informazioni più robuste, però possiamo usare i numeri per avere un’idea. Ricordiamo che l’edpoint dello studio è “evitare ospedalizzazione”. Allora, la riduzione di rischio relativo, usando la combinazione bamlanivimab-etesevimab (5.6 g totali) è del 85%. Anche in questo caso, però, se andiamo a vedere la riduzione del rischio assoluto, le cose cambiano significativamente (il 6.2% del placebo visita l’ospedale contro il 0.9% dei trattati). La riduzione di rischio assoluto è quindi del 5.3%. Da questo deriva un Numero Necessario da Trattare di 19. Quindi, devo infondere la combinazione di anticorpi in 19 pazienti per vedere il risparmio di UNA ospedalizzazione.
Se ci poniamo nell’ottica delle scelte di un Sistema Sanitario Nazionale che deve utilizzare i soldi pubblici nelle sue azioni, non possiamo non considerare i costi. Quello che sappiamo è che 0.7 g di bamlanivimab costano circa 1200 USD, quindi possiamo stimare che 5.6 g  di combinazione possano costare circa 9600 USD; ciò significa che, dai dati che abbiamo adesso, noi evitiamo una ospedalizzazione trattando 19 soggetti, spendendo 182.400 dollari (capito bene:  una su 19).  L’obbiettivo è ambizioso: sì, si direbbe, ma per chi?   Se però ci chiediamo “come mai la Germania ha comprato i monoclonali di Ely Milli“, a questa domanda risponderei: “Boh, mistero  della fede”. Buona lettura.

 

.)  Analisi finale del trial Ely Lilly sull’impiego del Bamlanivimab

21 gennaio 2021

Ed infine oggi il JAMA pubblica l’analisi finale del trial Ely Lilly sull’impiego del bamlanivimab -in monoterapia o in combinazione con Etesevimab (un altro anticorpo anti-spike, differente epitope)- su pazienti mild non ospedalizzati.

In realtà niente di nuovo da quanto già pubblicato, ma direi una prova ancora più forte della marginalità dei risultati (per lo meno di questi anticorpi e in queste condizioni). Allego due grafici, che chiunque abbia un minimo di confidenza con risultati biologici non ha difficoltà alcuna ad interpretare come mancanza totale di effetto. Poi possiamo discutere sui p e sui CI, ma il trattamento, banalmente, non ha effetto.

Un minimo effetto può averlo la combinazione dei due, a dosaggi 2.8g+2.8g (un setting che ‘specchia’ il trattamento Regeneron), che perlomeno ha un senso farmacocinetico e farmacodinamico. Un qualsiasi altro trial, in altre condizioni e per altre patologie, che desse questi risultati finirebbe dritto dentro il cestino dell’umido.

Veramente preoccupante la sovrapponibilità della dose a 0.7g con il placebo nel ridurre la carica virale in tutti i giorni del decorso.

Questo vuol dire che negli USA sono state distribuite oltre mezzo-milione di dosi (e per fortuna non utilizzate) di farmaco largamente sottodosato, inefficace, e a rischio di selezione di varianti resistenti.

Credo sia veramente il momento di una riflessione scevra da ideologia, soprattutto da parte di chi, forse con troppo entusiasmo, ha dato endorsment a posizioni non sostenute da nessun dato.

Ecco il link al lavoro su JAMA:

https://jamanetwork.com/journals/jama/fullarticle/2775647

1.) 17 dicembre 2020

Oggi Today.it ospita un mio piccolo contributo su pro e contro degli anticorpi monoclonali in uso emergenziale in USA. In particolare, ho pensato fosse utile fare una veloce analisi sugli aspetti organizzativi e logistici che l’impiego comporta, che devono essere a mio giudizio attentamente valutati quando se ne chiede l’autorizzazione all’uso.

https://www.today.it/opinioni/anticorpi-monoclonali.html?fbclid=IwAR3lA98gos31mosVLENFAkr5mPHWaLe_evC0UX9kU39fPTHfp-MFXy1A96A

 

2.) 18 dicembre 2020

Ecco, qualcuno scrive, molto meglio di me, le stesse cose che scrivevo io ieri. Certo, più che chiedersi perché AIFA (??) non abbia autorizzato il trattamento (posto che qualcuno l’abbia chiesto) ci saremmo dovuti chiedere perché eventualmente lo avesse concesso….

https://emcrit.org/pulmcrit/bamlanivimab/?fbclid=IwAR1B-m16Q3CPjgNB-ixSvwoiB5WJ4NKnvcgiTHxAgwikR9mlfFChpXECX6g

 

3.) 22 dicembre 2020

Ma guarda…. ma chi l’avrebbe mai detto.. ma tu pensa un po’, nessuno ha mai fatto domanda è si è proposto un contratto d’acquisto… ma guarda che strano

Eppure, sembrava una torbida storia, su cui avevano lanciato sospetti e lancinanti appelli fior di esperti, dal Fatto quotidiano a Sputkik News, da Salvini al Patto Trasversale della Scienza, da Italia Viva agli editor in chief di PDO…

Che sorpresa, sono esterrefatto. Dopo uno studio così solido in cui l’endpoint surrogato primario non è raggiunto, quello secondario è marginale ad un dosaggio diverso da quello in cui eventualmente si vedrebbe qualcosa in quello primario, e nessuno vuole comprare il pacc… ehm l’anticorpo… ma che strano…

Sarà la volta buona che i cialtroni smettano di pontificare?

http://www.quotidianosanita.it/scienza-e-farmaci/articolo.php?articolo_id=91145&fbclid=IwAR1offTo6hzGRDUmUL_Gnza9NTA5DmoONlFcx5EHXLB9Mt5XMbZRPTTVOQU

 

 

4.) SEMBRAVA FOSSE UN CAVALLO INVECE ERA UN CALESSE

23 dicembre 2020

Di tanto in tanto anche nella stampa italiana escono inchieste giornalistiche interessanti. Ne Il Fatto Quotidiano, a partire dal 17 Dicembre e a firma Thomas Mckinson sono apparsi degli articoli relativi ad una questione circa gli anticorpi monoclonali prodotti da Ely Lilli. Questa inchiesta è stata ripresa da alcuni esponenti politici, in primis Matteo Salvini, ma poi anche Librandi di Italia Viva, e anche dall’associazione Patto Trasversale della Scienza e dal blog Pillole d’Ottimismo. Tutti questi attori, in maniera quasi coincidente, hanno espresso sorpresa, se non indignazione, per il mancato uso in Italia di un farmaco sperimentale, denominato bamlanivimab (ex Ly-CoV555), non approvato in nessuna parte del mondo, e cui la FDA ha concesso l’uso emergenziale negli USA.

Devo dire che inizialmente ho trovato l’inchiesta abbastanza speciosa, non comprendendo bene l’argomento del contendere, seppur con elementi di grande curiosità che riprendo tra un attimo. Ieri sera, però, l’Agenzia Italiana del Farmaco ha pubblicato un comunicato di risposta agli interrogativi sollevati dall’inchiesta e ripresi da politici e commentatori social. Bene, leggendo il comunicato AIFA, la ‘risposta’ giornalistica del Mackinson pubblicata oggi a pagina 3 de Il Fatto Quotidiano, e riguardando le puntate scorse dell’inchiesta, la cosa acquista un interesse notevole, e direi che c’è molto spazio, per giornalisti interessati, di ulteriore approfondimento.

Io mi permetto, per adesso, solo di segnalare al Mackinson una notevole imprecisione, già presente nei pezzi scorsi, ma eclatante nell’articolo di oggi. L’imprecisione non è solo formale, ma mi pare sia il cuore stesso dell’inchiesta, su cui appunto mi auguro qualcuno voglia continuare ad approfondire.

Mi riferisco alla questione della ‘gratuità’. Scrive infatti il Mackinson: “… il 9 (novembre n.d.a) la FDA USA autorizza il farmaco per l’emergenza e Lilly non può più regalarlo.”

Allora, deve esser chiara una cosa. O l’Italia viola tutte le norme in merito all’autorizzazioni dei farmaci e in particolare di quelli biotecnologici e concede un AIC (Autorizzazione Immissione in Commercio) in assenza di qualunque prova di efficacia (e di safety), oppure può procedere ad un uso compassionevole, per cui E’ OBBLIGATORIA LA FORNITURA GRATUITA.

Inoltre, il termine ‘regalarlo’ è incredibilmente impreciso, al limite del confondente. Le forniture gratuite non sono un ‘regalo’, ma il doveroso – e anche spesso insufficiente – contributo che le aziende devono dare alla fase di sperimentazione dalla quale, in caso di successo, avranno vantaggi economici incredibilmente elevati.

Da quello che si capisce dal combinato dell’inchiesta e del comunicato AIFA, quello che ha fatto Lilly è proporre un contratto di fornitura (un ‘future’, per intenderci), nelle more di una approvazione emergenziale che deve dare EMA (secondo la legge italiana: https://www.aifa.gov.it/procedura-di-autorizzazione…). Se si intende procedere ad un’ulteriore sperimentazione, AIFA, ricevendo richiesta di un centro clinico, recependo il parere del Comitato Etico di riferimento, può concede l’uso compassionevole e le ditte interessate procederanno alla fornitura gratuita. Non si capisce proprio dov’è il problema.

Quindi, il Fatto oggi riporta un’informazione molto approssimativa. Invece, sarebbe molto interessante che venisse fuori questa famosa email del 7 Ottobre che risulta ricevuta dal Vice Ministro Prof. Sileri. Sarebbe interessante capire chi l’ha inviata, perché è stata inviata al Vice Ministro (e non al Ministro, al Direttore Generale, o al protocollo) e se la mail è stata, appunto, protocollata. Ecco, se io fossi un giornalista, mi occuperei di questo. Vediamo questa mail del 7 Ottobre, e si cominceranno a capire meglio le cose.

Ma siccome non sono un giornalista, ma un professore di chimica medicinale, con un po’ di esperienza sui farmaci, insisto sul punto più importante di tutti che immagino abbia meno interesse per il pubblico generale ma che trova il consenso di una amplissima comunità di ricercatori: stiamo parlando di farmaci sperimentali che hanno una marginalissima risposta di efficacia, e per i quali sarebbero senz’altro necessarie -eventualmente- altre sperimentazioni (a carico dell’azienda ovviamente, e non certo del SSN Italiano), sebbene in condizioni normali i dati pubblicati avrebbero portata all’immediata chiusura del progetto. Non siamo in condizioni normali, non occorre tralasciare nulla, ma per lo meno non si raccontino fandonie.

Sottolineo, agli amici interessati, l’elemento di maggior debolezza dello studio di fase 2 (Blaze 1) pubblicato su NEJM. Già l’endpoint primario è un endpoint surrogato (diminuzione della carica virale) e non clinico (e questo per me già sarebbe sufficiente ad inarcare il sopracciglio. L’endpoint surrogato lo scegli per un farmaco antiiperlipidemico, non per un infezione acuta virale senza trattamenti standard), ma non solo, l’endpoint surrogato non viene raggiunto se non in maniera marginale (marginale non è una parola a caso: indica marginalità di significatività statistica) ad un dosaggio di 2.8 grammi.

Di passaggio, chi non è familiare con queste misure consideri che 2.8 grammi significa prendere, ad esempio, l’intera scatola del classico antinfiammatorio Moment (12 compresse da 200 mg), aggiungere altre 2 compresse, scioglierle in 250 ml di soluzione fisiologica (due bicchieri da cucina) e iniettarli in vena. Non propriamente un gioco da ragazzi…

Oltre questo però occorre considerare che gli altri due dosaggi impiegati 0.7g e 7 g non danno risposta significativamente diversa dal placebo. Molto strano. Le basi della farmacologia si fondano, dai tempi di Paracelso, sull’effetto dose-risposta: ci deve essere una relazione tra il dosaggio e l’effetto biologico. Se non si vede questa relazione, c’è qualcosa di strano (nel senso del meccanismo d’azione). Bene, qui abbiamo un effetto solo sul dosaggio intermedio. Nessun effetto sul dosaggio basso, nessun effetto sul dosaggio alto. Qualsiasi studente in tesi di laurea si preoccuperebbe molto dell’integrità di questo dato.

Non solo!

Quando ci si sposta all’endpoint secondario (diminuzioni delle viste in ospedale), il dosaggio (che poi è quello cui FDA concede la EUA) che mostra significatività è quello più basso (0.7 g). Questo è un altro punto di ‘concern’. Apparentemente non c’è relazione tra endpoint surrogato (carica virale) e endpoint clinico (visita in ospedale). La cosa più probabile che emerge dallo studio è che vista la bassa numerosità dei casi, i risultati sulla carica virale siano casuali. Rimane il modesto impatto sulle visite in ospedale (NON SULLA MORTALITA’, NON SUL RICOVERO IN TERAPIA INTENSIVA, e probabilmente neppure sul ricovero ordinario, ma proprio sulle visite in ospedale: infatti, l’endpoint secondario depositato prevedeva: accessi in ospedale > 24h. L’endpoint pubblicato, invece, è semplicemente ‘visita in ospedale’…)

Oltre a questo, alcuni colleghi che evidentemente non hanno alcuna dimestichezza con queste cose si sono lanciati in improvvide affermazioni, che hanno probabilmente tratto inganno anche il giornalista del Fatto Quotidiano. Dire che il trattamento riduce del 70% le ospedalizzazioni è una enorme imprecisione, anche indipendentemente da quanto sopra. Questo messaggio potrebbe lasciar intendere che l’impiego del farmaco potrebbe in tempi brevissimi alleggerire in maniera fondamentale la pressione sugli ospedali. Il che è ovviamente un wishful thinking , basti pensare quello che sta accadendo negli USA. Al contrario, l’uso di questo farmaco appesantisce il carico ospedaliero, perché obbliga ad usare sale di infusione per pazienti lievi, positivi al Covid. E inoltre, l’unico dato che si può accettare dalla pubblicazione sul NEJM è il rapporto NNT (Number Needed To Test): per avere l’effetto di una diminuzione di una visita in ospedale occorre trattare 20 pazienti. Quindi, l’effetto è del 5%, non del 70%.

Infine, sento molti dire: vengono usati negli USA con risultati soddisfacenti. Primo, non pare proprio, visto che il tasso di utilizzo si aggira sul 10% delle disponibilità e i costosissimi anticorpi rimangano sugli scaffali delle farmacie ospedaliere. Secondo, cosa diavolo vuol dire in un contesto di evidence-based ‘risultati soddisfacenti’? Ci sono dati, studi, pubblicazioni?

Stiamo parlando di pazienti che 19 su 20, guariscono comunque in pochi giorni. Quali sono questi risultati ‘soddisfacenti’? Dove sono pubblicati? Questa è la stessa argomentazione, e lo dico senza nessuna ironia, che usano i guaritori in Congo: funziona la corteccia per curare il tumore? Si, in alcuni casi si… Ecco il livello cui certi stregoni nostrani hanno portato la discussione scientifica in Italia.

 

5.) 24 dicembre 2020

Il Fatto Quotidiano continua la sua inchiesta sulla faccenda degli anticorpi monoclonali. Nel numero di ieri (23.12.2020), appaiono altri articoli che ovviamente, a seguito del puntuale comunicato stampa di AIFA, correggono sostanzialmente alcune delle imprecisioni riportate nei giorni scorsi, ma d’altra parte mi pare aumentino la confusione. Mi sembra innanzitutto molto appropriato che sia scomparsa la parola ‘regalare’, come suggerivo ieri. Non credo proprio che il Dr. Mackinson legga le mie brevi note rivolte ai miei pochi amici, ma mi sembra una correzione molto opportuna. Tendenzialmente, suggerirei caldamente di evitare di associare la parola ‘regalare’ a dei farmaci, soprattutto nel contesto di una faccenda che da, quanto si desume dagli articoli stessi, interessa nella sua fase finale anche una richiesta di acquisto (adesso provo a spiegare meglio) da parte del SSN.

Un’altra interessante correzione di rotta riguarda il fatto che non si parla più di salvare vite, ma di effettuare un ‘trial clinico pragmatico’. Interessante, un salto indietro nel tempo, direi. I trial pragmatici sono quelli in cui si valuta(va) l’efficacia di un farmaco in un contesto di ‘real life’, quindi in settings clinici reali, fuori dalla confort zone del trial clinico. Ora, da chi sia stato proposto questo trial pragmatico (dalla Lilly?, da un centro clinico? ) a chi sia stato proposto (Ad AIFA? Al Ministero?) e con quale protocollo (ma siamo sicuri che Mackinson ci darà informazioni nei prossimi giorni) non è per ora dato sapere.

Diciamo che non è sorprendente che la proposta – informale, una chiacchierata preliminare, scrive Mackinson – sia stata lasciata cadere. Un trial pragmatico per un farmaco di cui esistono solo due report, uno totalmente negativo (ACTIV-3, interrotto per futilità) ed uno marginalmente significativo (BLAZE-1, con problemi metodologici e meccanicistici estremamente seri, che meritano ancora approfondimento) sarebbe una cosa un po’ strana, soprattutto se proposta ad Ottobre, quando il trial BLAZE-1 era ancora in corso e poteva ad esempio concludersi in maniera talmente negativa da bloccare ogni cosa, o talmente positiva da permettere una rapida richiesta di approvazione worldwide. Per quale motivo, quindi, in attesa dei risultati, si proponeva addirittura un trial con 10.000 dosi (complicatissimo da portare avanti, in una fase di forte crescita epidemica. Ricordiamo che 10.000 dosi vogliono dire 10.000 contagiati lievi che invece di stare a casa a risposare devono entrare in ospedale. Un costo complessivo enorme)? Boh.

E in effetti ora, con l’approvazione dell’uso emergenziale da parte di FDA, un trial clinico pragmatico è di fatto in corso negli USA. Le notizie di stampa sono abbastanza deludenti, ma naturalmente aspettiamo di vedere cosa succede e come saranno i risultati pubblicati sulle riviste scientifiche.

Poi, però, il Dr. Mackinson fa delle affermazioni un po’ curiose. Iniziamo dalle correzioni con matita rossa e blu (non se la prenda, dottore, sono un insegnante e sono abituato a far così, nessuna polemica e pronto a correggermi se gli errori sono i miei). L’erroraccio da bocciatura riguarda la fornitura gratuita. Ma, scusi, dottore, chi è che le ha suggerito tali enormità? Innanzi tutto il farmaco non è approvato in nessuna parte del mondo, quindi non esiste un prezzo in nessuna parte del mondo. Dalle notizie di stampa risulta che il governo degli Stati Uniti ha siglato un contratto d’acquisto per circa 1250 dollari a fiala. Ma questo non è il ‘prezzo del farmaco’, è un contratto di fornitura di ‘goods’.

Secondo, esistono decine di casi ogni anno in cui vengono approvati per uso COMPASSIONEVOLE – CON OBBLIGO DI FORNITURA GRATUITA AI SENSI DELLA LEGGE – farmaci già registrati in USA, Giappone, Europa e stessa Italia. Supponiamo, per fare un esempio sciocco, che io porti evidenze convincenti che vale la pena sperimentare il Viagra® per una malattia rara ed orfana. Posso chiedere l’uso compassionevole. L’AIFA approva, e Pzifer (titolare del AIC di Viagra® in Italia) se accetta procede alla FORNITURA GRATUITA di Viagra®, sebbene il Viagra® sia regolarmente in commercio, e si procede con l’uso.

Quindi, Dr. Mackinson, se la Ely Lilly è interessata ad un uso compassionevole in Italia, e ritiene di aver dati a supporto, faccia domanda e fornisca il farmaco gratuitamente. Non c’è nessun problema e penso che nessuno possa davvero opporsi. Davvero non si capisce di cosa si stia parlando. E’ esattamente quello che ha fatto Gilead per Remdesivir. Se i dati che fornisce Lilly sono solidi e promettenti, sarà inoltre di tutto interesse per il Governo Italiano procedere ad un contratto di fornitura.

Perdoni, Dr. Mackinson, ma il senso dell’inchiesta rimane del tutto oscuro.

Infine, c’e’ un’altra imprecisione. Per l’ennesima volta il Fatto Quotidiano fa riferimento, in maniera assolutamente impropria (nel contesto della finalità dell’articolo) alla legge 648/98. Ma Dr. Mackinson, la legge non dice quello che lei vuole che dica. La legge 648/98 non è il modo che l’Italia potrebbe avere per impiegare farmaci non autorizzati dall’EMA. La legge regola LA RIMBORSABILITA’ DI FARMACI NON AUTORIZZATI A CARICO DEL SSN.

Ad esempio. Esistono prove scientifiche solide che un farmaco che, supponiamo, costi 30.000 euro a dose e approvato in Giappone per la malattia X possa aver una qualche utilità per la malattia Y? Allora, facendo riferimento alla legge, AIFA può proporre che il SSN rimborsi i 30.000 euro (per quei pazienti della malattia Y che potrebbero aver vantaggio) nelle more della procedura di applicazione. Sta dicendo, Dr. Mackinson, che è questo il caso di cui stiamo discutendo?

Allora, caro Dottore, se questa legge è stata citata, come mi pare desumere dai suoi numerosi articoli, già dalle riunioni di ottobre come strumento amministrativo per procedere con l’operazione, vuol dire che il punto della negoziazione del prezzo con AIFA era un punto ben chiaro.

Mi faccia capire una cosa quindi. E’ posizione sua e del Fatto Quotidiano quella di promuovere (giornalisticamente parlando, intendo) la messa a carico sul denaro pubblico, con i soldi delle tasse dei cittadini italiani, un uso per indagini pragmatiche su farmaci per i quali non sono disponibili studi di fase 3 di efficacia, (anzi sono disponibili alcune evidenze contrarie)?

 

6.) TUTTO QUELLO CHE AVRESTE VOLUTO SAPERE SUL PERCHE’ (QUESTI) ANTICORPI NON FUNZIONANO E NESSUNO VI HA MAI DETTO

25 dicembre 2020

Gli anticorpi monoclonali costituiscono un armamentario terapeutico fantastico. Nella mia famiglia, ahimè, ne abbiamo consumati più che biscotti a colazione, ed hanno veramente cambiato la qualità della vita (lasciando anche qualche regalino, ma fa parte del gioco…).

Nonostante siano oramai in uso da oltre 30 anni, e costituiscano, al momento, una delle principali fonti di revenue delle industrie farmaceutiche e la principale fonte di innovazione nel mondo farmaceutico, costituendo la gran parte delle NCE (New Chemical Entities) approvate ogni anno.

I campi principali di applicazione sono le malattie autoimmuni e le malattie oncologiche. Paradossalmente, sebbene il concetto di anticorpo sia chiaramente legato ad un’infezione (batterica o virale), lo sviluppo di anticorpi monoclonali verso malattie infettive non ha mai ‘sfondato’. Non ha mai sfondato per motivi di sostenibilità economica (malattie generalmente acute e a risoluzione rapida, grande incidenza in paesi a basso reddito), ma anche per motivi tecnici, di reale significatività chimica e clinica.

Voglio affrontare un paio di punti che non sono mai toccati nelle discussioni pubbliche (invero di pessimo livello sinora, anche naturalmente grazie al mio contributo), monopolizzate da chi non ha ben chiari alcuni punti (che vorrò adesso toccare) e che per deformazione professionale è più legato all’uso che alla comprensione del meccanismo.

I cosiddetti anticorpi monoclonali di cui si parla nel contesto dell’infezione Covid19 sono prodotti biotecnologici derivanti da immunoglobuline prodotte dai linfociti B di un individuo guarito dall’infezione. Sono in particolare IgG (quelle a forma di Y).

Tenetelo ben a mente, perché quando si parlerà del perché non funzionano, e del perché sia stato molto opportuno valutarli (seppur negativamente per sfortuna) in trial su pazienti gravi ne torneremo a parlare.

Sono proteine. Ad alto peso molecolare. Immaginate che il paracetamolo (principio attivo della Tachipirna) pesa 151,16 g/mol (vuol dire che 6.022x10E23 molecole pesano 151.16 grammi), una IgG come quelle in sperimentazione pesa circa 150.000 g/mol (circa mille volte di piu’). Questa è una cosa molto importante, perché determina un sacco di cose, che forse non sarebbero altrimenti chiare. Il paracetamolo può esser preso per bocca. L’anticorpo no. Non è possibile. Non resisterebbe al passaggio nello stomaco, e se fosse protetto per resistere, non sarebbe mai assorbito dalla membrana intestinale, non riuscendo ad entrare in circolo. Devono quindi esser somministrate per via parenterale (endovena, sottocutanea, intramuscolo). Ci sono interessanti e promettenti tentativi di somministrazione polmonare, non ancora però utilizzati.

La somministrazione endovena di una proteina deve esser fatta in un ambiente ospedaliero, con presidi di rianimazione disponibili, perché ogni volta che si ha un’infusione di una proteina endovena c’è il rischio – molto basso ma possibile – di una reazione anafilattica. Per questo motivo – come regola generale – si tende a preferire formulazioni sottocute o intramuscolo (più raramente). Anche qui, però, non ci sono regole chiare. Vediamo un po’

Gli anticorpi di cui si parla in questi giorni sono attivi a dosaggi che vanno dai 2.8 ai 8 g (la formulazione approvata in uso emergenziale è in realtà 0.7g, che è cosa che lascia stupefatti per i motivi che poi vediamo). Ora, procedere ad una somministrazione di 8g in sottocute è impossibile (pensate ad un cucchiaino da tè pieno di zucchero. Questi sono circa 8g). Pensate che il limite delle iniezioni intramuscolo è circa 1g (dolorosissimo) per alcuni antibiotici.

Tuttavia, anche qualora fosse possibile trovare un anticorpo che sia dosabile a 0.5g o meno, il somministrarlo via sottocute (o peggio intramuscolo) non è detto che sia una buona idea. Infatti, la somministrazione sottocute ha un rilascio molto lento, producendo un picco plasmatico dopo 2-6 giorni (a seconda della molecola). Questo va benissimo per farmaci antitumorali o antireumatici, va malissimo per farmaci che, ci stanno dicendo, devono esser somministrati molto precocemente.

Quindi, prima conclusione. Per adesso, l’unica possibilità è somministrazione endovena, in ospedale. Se saranno disponibili altre somministrazioni, potranno esser usate ragionevolmente per profilassi, anche se la disponibilità di decine di vaccini rende la profilassi, tra qualche mese, di interesse assolutamente marginale.

Andiamo avanti. Ci facciamo la nostra infusione endovena dei nostri 7 g di proteina, e che succede? Praticamente niente. La proteina si distribuisce nel plasma (circa 4.5 litri in un adulto) e in pochi liquidi interstiziali (probabilmente il liquor e un po’ nel SNC). Diciamo quindi che avete questi 7 g sciolti in 5-8 L di liquido. La proteina rimane lì a lungo, anche per una-due settimane, perché le classiche vie di eliminazione non funzionano: il fegato non le degrada, i reni non le filtrano, le proteasi plasmastiche le idrolizzano con estrema lentezza. Bene, quindi.

Si e no.

Bene se il bersaglio molecolare -il suo antigene- è facilmente esposto al plasma. Male se non lo è. E’ del tutto inutile avere sti 7g in giro per il plasma se mio virus sta da un’altra parte, no?

Immagino che stiate sulle spine e mi direte: insomma sto anticorpo si distribuisce o no dove serve? La risposta è semplice: boh.

Questo bisognerebbe fare, un bello studio farmacocinetico e capire la distribuzione. Al momento, non ci sono dati pubblicati. Quello che possiamo dire, per altri anticorpi, è che il passaggio sangue/polmone è di circa 500:1. Cioè la concentrazione nel polmone è 500 volte più bassa di quella nel plasma. Ma il virus, nei primissimi giorni post-esposizione sta da un’altra parte, sta nelle alte vie aree, nel naso soprattutto, protetto da mucose, entro le quali è molto difficile che le IgG riescano a passare. Sicuramente non passano per trasporto passivo, mentre potrebbero sfruttare la presenza di FCnR espressi nell’epitelio nasale.

Quindi, se una visione semplicistica e rudimentale del meccanismo d’azione indica nei primissimi giorni di infezione il momento migliore per somministrare l’anticorpo, problemi relativi all’assorbimento e alla distribuzione rendono questa sfida particolarmente complessa. Bisogna dire che le stesse difficoltà sono apparenti per anticorpi anti RSV (virus respiratorio sinciziale).

Visto quindi la sostanziale inefficacia del trattamento nei pazienti precocemente diagnosticati e con malattia lieve, credo sarebbe molto opportuno valutare (o rendere pubblica, se è già stato fatto, come sarebbe normale) la farmacocinetica di questi anticorpi.

Facciamo un passo indietro. Nell’uso emergenziale approvato da FDA, ci iniettiamo 0.7 g di proteina, che pesa 150.000 (circa) Da. Questa proteina si distribuisce in diciamo 7 litri (4.5 di sangue e 2.5 di liquido interstiziale). Tornando ad un po’ di stechiometria vuol dire che abbiamo:

0.7g/150.000g/mol = 0.00000467 moli di anticorpo (4.67×10-6). Sciolte in 7 litri di volume di liquidi, abbiamo una concentrazione di 0.00000067 mol/L ovvero 670 nM (nanomolare).

Non è pochissimo, non è tantissimo.

Se il target fosse nel sangue o in tessuti fortemente irrorati potrebbe esser sufficiente ad ingaggiare significativamente l’antigene. Se il target è nel polmone, supponiamo che (credit to Adriano Aguzzi) la membrana sinciziale sia rotta sotto infiammazione, che ne passi un decimo (invece del cinquecentesimo teorico, quindi una stima estremamente generosa) la concentrazione è 67nM. Siamo a livello del IC50 in vitro. Cioè, per dirla semplice, a quella concentrazione il 50% degli antigeni è neutralizzato. Nella mucosa nasale, il valore diventa irrilevante.

Nelle Supporting Information (io leggo anche quelle, in genere vedo che qualche collega si ferma al titolo) del lavoro sul trial Activ-3 si legge bene che la Lilly, nel caso di Bamlanivimab suggerisce -senza dare dati- il dosaggio di 7 (sette grammi) come quello più opportuno sulla base della farmacocinetica. Più o meno in accordo con questi conticini fatti in un noioso pomeriggio natalizio. E allora, mi direte, perché il dosaggio approvato é dieci volte più basso? E che ne so?

So solo che, se in questo Paese è ancora possibile esprimere un’opinione scientifica, dosare quell’anticorpo a 0.7g è una follia:

  1. Perché non sembra avere possibilità di funzionare a quel dosaggio
  2. Perché dosaggi subottimali selezionano varianti del virus che evadono dall’anticorpo (resistenza)
  3. Dosaggi subottimali, nel caso di SARS-Cov (non Cov2, Cov) hanno mostrato ADE (antibody dependent enhancement).

Leggo di qualcuno che suggerisce trial pragmatici aperti (quindi, diffusi sul territorio, con pazienti non volontari ma individuati dai responsabili dello studio, con randomizzazione su cluster e non su soggetti). A me pare una follia assoluta.

Le cose non finiscono qua. Per esser protettivo nelle fasi precoci di questa infezione, un anticorpo deve essere una IgA, non una IgG. Le IgA infatti hanno la capacità di migrare facilmente dal sangue al distretto mucociliare. Le IgG, come il bamlanivimab rimangono confinate nel circolo sanguigno.

Direte, ma possibile che ste cose le industrie farmaceutiche non l’abbiano valutate? A parte che, si, è possibile (ma questa è un’altra storia), ma non credo. Io credo che l’abbiano ben valutato, e questo é il motivo per cui sono stati saggiati sui pazienti gravi.

Adesso tutti a dire: ah ma è un’ovvietà che non funzionano negli stati avanzati della malattia (mi ricordano un mio vecchio prof di chimica organica che quando una reazione non veniva diceva -in perugino- “e giae, ma l’sapemme” – e già, ma lo sapevamo. E allora perché diavolo me l’hai fatta fare???).

Invece non è cosi. Siccome le IgG sono confinate nel plasma, sono utili nella profilassi della invasione sistemica dal sistema mucociliare al polmone e agli altri organi e sono molto improbabili avere un effetto nel bloccare gli step iniziali della replicazione virale nella mucosa del tratto respiratorio. Per questo sono stati saggiati (a 7g non 0.7!!) nel paziente ospedalizzato senza deficit d’organo. E che non abbiano funzionato è davvero sconfortante!!

Questo è , nelle sue basi, lo stesso motivo per cui ancora non si sa se i vaccini abbiano una reale capacità di bloccare la trasmissione. Quello che sicuramente fanno benissimo i vaccini è quello di bloccare l’invasione sistemica e quindi non far ammalare l’individuo. L’effetto sulla mucosa delle alte vie respiratorie è ancora oggetto di discussione.

 

7.) OMEOPATIA, STREGONERIA, FARMACI, E IL DECLINO DELLA FORMA

29 dicembre 2020

Nelle società ricche occidentali siamo permeati sin dalla nascita dalla disponibilità di farmaci. Diamo per scontato che i farmaci ci sono, e diamo per scontato che ci possiamo curare, e diamo per scontato che la prossima malattia troverà il suo farmaco pronto a combatterla.

In realtà, vorrei provare a suggerirvi di riflettere sul fatto che dire che un ‘farmaco funziona’ ha richiesto – e ancora richiede! – nei decenni uno sforzo enorme di mediazione culturale prima ancora che osservazionale.

Prima di andare avanti, consentitemi due precisazioni. Il primo è che professionalmente sono abituato ad avere a che fare con studi clinici. Ne ho in corso un paio, e tra l’altro (pur ahimè non avendo nessun tipo di royalties) ho partecipato come co-scopritore all’avventura di un farmaco approvato, che potreste comprare in farmacia. Ne ho seguito direttamente prima e indirettamente poi, tutta la storia, dall’ideazione, alla sintesi, alle prove precliniche, al IND, alle prove cliniche, all’approvazione, al fallimento di richieste di approvazioni per patologie diverse.

La seconda precisazione è che in questa fase della mia vita professionale e personale mi sto dedicando con molto interesse allo studio delle cosiddette CAM (complementary and alternative medicines). E siccome sono un terzomondista cheguevarista 🙂  dico subito che il termine mi fa imbestialire, essendo le sedicenti CAM le uniche medicine disponibili ad una frazione notevole della popolazione mondiale. Alternative e complementari a che??

Quindi, conosco gli studi clinici e sono molto interessato a ciò che usato fuori dagli studi clinici. Fine del disclaimer.

Allora, come si fa a dire che una medicina funziona? Associare la guarigione all’assunzione del medicamento è la prima cosa ovvia che viene in mente ed è difficile da confutare. Ma è sufficiente?

Vi faccio tre esempi:

1) I meno giovani ricorderanno bene il c.d. Metodo Di Bella per la cura di alcuni tumori, basato sull’uso tra le altre cose della somatostatina. Il vecchio professore era sicuramente un medico eccezionale, di quelli che non esistono più. E sono sicurissimo che lui credeva in pieno in quello che proponeva e sono convinto che ciò che diceva lo ‘vedeva’ veramente.

2) In Madagascar, e poi in Tanzania, e poi in Burundi, si è rapidamente diffuso l’uso del cosiddetto ‘Covid-organic’ un tè a base di Artemisia, come profilassi e cura per il Covid. Funziona? Beh, pragmaticamente (per usare una parola che viene usata a sproposito) parrebbe di si. I decessi sono irrilevanti in quei paesi, le ospedalizzazioni pure, e l’impiego della bevanda parrebbe aver bloccato la diffusione dell’epidemia. E poi, il tè è quasi gratis, è disponibile per tutta la popolazione, male non fa. ‘Standard of care’ (altra parola usata ad mentulam canis) non ce n’è… quindi, cosa mai dovrebbe ostare una diffusione ed un endorsment del preparato?

3) Le farmacie italiane sono ben fornite di preparati c.d. omeopatici. Molti medici-chirurgi, iscritti all’ordine e quindi esercitanti, prescrivano legittimamente i preparati omeopatici, che sono tra l’altro anche citati dalla Farmacopea Ufficiale (che è testo che ha dignità di provvedimento di Legge). Quello che dico io, professore di chimica farmaceutica, è che i derivati omeopatici NON funzionano. Dirò di più, emotivamente NON POSSONO funzionare, a meno del discredito di tutto ciò che ho imparato, insegnato, e sperimentato in quasi 30 anni di attività.

E però, sebbene noi oramai siamo in grado di ‘vedere’ sperimentalmente come funziona un farmaco sul suo recettore, sappiamo che l’effetto dipende dalla dose, sappiamo che presa una qualsiasi sostanza, dallo zucchero alla tossina botulinica, dosaggi bassissimi nulla fanno, il dosaggio giusto è curativo, dosaggi alti sono tossici, eppure, nonostante tutto questo, l’omeopatia continua ad avere un suo ampio seguito di utenti. E se proviamo a ragionare senza integralismi, alla fine quello che si dice è: si ma il mio bambino ha preso le goccine omeopatiche e dopo due giorni la bronchite è passata. Si ma il mio cane ha preso la medicina omeopatica e gli è passato il vomito, ed il cane non può avere effetto placebo (ma il padrone sì… n.d.a). E, in fin dei conti, essendo acqua pura con un po’ di zucchero, che male può fare? Hanno torto?

Questi tre esempi, espressi in modo provocatorio, vogliono far riflettere sul fatto che il cambio di paradigma avvenuto nello scorso secolo relativamente alla definizione di ‘cura efficace’ è fondamentalmente dovuto ad un patto di comunità.

Un medico può legittimamente, assumendosene le eventuali responsabilità, prescrivere al proprio paziente ciò che ho descritto al punto 1, 2, e 3.

Quello che non è possibile, è che i trattamenti 1, 2, e 3 vengano erogati dal Sistema Sanitario Nazionale -anche con modalità di compartecipazione di spesa- se non vi è ‘evidenza’ che i trattamenti producano un vantaggio (anche economico) rispetto all’assenza di trattamento o di altro trattamento. Inoltre, l’approvazione da parte del SSN evita (entro i termini di legge) la responsabilità del medico. Se io curo il tumore con la somatostatina invece che con l’imatinib ed il paziente muore, posso dover giustificare il mio operato. Se invece la somatostatina fosse approvata come antitumorale, il medico avrebbe un livello di responsabilità molto minore.

Quindi, come si stabilisce se una cura o un trattamento è efficace? La comunità scientifica si è accordata nel considerare i saggi clinici a doppio braccio randomizzato il modo per aderire al metodo ‘sperimentale’, cioè all’impiego della matematica (nelle sue varie declinazioni) come metodo di confronto tra esperimenti.

Siccome io non posso CONTEMPORANEAMENTE trattare e non trattare uno stesso paziente, quello che si fa è costruire gruppi di pazienti in maniera tale che -statisticamente- anziché fare la media su di un solo paziente trattato e non trattato (che è impossibile), faccio la media su gruppi randomizzati trattati e non trattati. L’unico modo che abbiamo per decidere se ciò che osservo sui gruppi è predittivo di ciò che posso osservare sul singolo, è valutare STATISTICAMENTE i risultati, fornendo i limiti di confidenza dei risultati che ottengo. Naturalmente, la cosa non è così ovvia, perché i risultati statistici devono esser dati su degli ‘endpoint’ predefiniti. Datemi l’endpoint giusto e solleverò qualsiasi studio clinico, direbbe un novello Galileo, ed in effetti la scelta dell’endpoint è cruciale quanto la sua significatività statistica. Immaginate di avere un farmaco antidiarroico. Secondo voi è più utile sapere quante ‘scariche diarroiche’ il farmaco evita, oppure quanto varia il tasso di elettroliti nel sangue dopo la somministrazione? Il primo si chiama endpoint clinico. Il secondo si chiama endpoint surrogato. Il primo è un endpoint forte, il secondo è debole. E’ ovvio che il tasso elettrolitico è descrittivo dello stato indotto dalla diarrea, ma mentre ‘contare’ il numero di scariche dà un’idea forte dell’efficacia del farmaco, misurare un parametro chimico-clinico apre una varietà di interpretazioni: si misura dopo un giorno, dopo due? Si osserva a studio completato (post-hoc analysis)? Si adatta lo studio in base all’endpoint surrogato (studio adattativo)? Insomma, le cose sono complicate.

Quello che NON si può fare è aderire contemporaneamente alle due impostazioni: chiedere una valutazione statistica rigorosa, basata sulla EVIDENZA, da una parte e credere in una narrazione aneddotica, basata sulla EMINENZA, dall’altra. Se questo accade, è la fine dell’impostazione scientifica della medicina clinica. In termini di ‘popolazioni’ gli unici farmaci che funzionano sono quelli che superano la validazione statistica indipendente e il cui sviluppo è fatto conformemente alle regole stabilite dalle agenzie regolatorie. Tutto il resto è solo aneddotica e narrazione.

Dire che bisogna imporre un trattamento perché è gratis, perché non fa male, perché forse può funzionare è la negazione di 100 anni di medicina sperimentale ed osservazionale, ed è la legittimazione (certo inconsapevole, ma sicuramente colposa) dei negazionisti del metodo scientifico.

E’ apparso qualche giorno fa sulla stampa un’intervista di un medico (così viene presentato dall’articolo) di cui faccio il copia-incolla di un’estratto.

  1. È vero che il Presidente Donald Trump è stato curato con un ‘cocktail’ di questi anticorpi?
  2. «Verissimo. Eravamo ad inizio ottobre e la decisione fu presa perchè sembrava che le condizioni del presidente stessero deteriorando rapidamente. Gli venne fatta una infusione del cocktail della Regeneron ed i risultati nel suo caso sono stati ottimi».

Cosa possiamo dire di questa affermazione? Nulla di conclusivo. Può ben essere che effettivamente il presidente Trump sia guarito grazie al cocktail di anticorpi. Ma può ben esser che il presidente Trump sia uno dei 97 su 100 che guarisce spontaneamente dall’infezione da SARS-Cov2. Oppure può ben essere che il presidente Trump sia guarito grazie ad uno degli altri farmaci che ha assunto: Remdesivir, cortisone, idrossiclorochina, azitromicina, e chissà quant’altro. Oppure può ben esser che sia guarito grazie all’uso combinato di tutte queste cose, inclusi gli anticorpi. Insomma, come è normale che sia, nel metodo sperimentale, basato sulle evidenze, un’affermazione come quella citata è un’affermazione indecidibile, inutile, e confondente.

Dal punto di vista metodologico l’affermazione che ho riportato ha esattamente lo stesso valore – e pone chi l’ha fatta sullo stesso, legittimo e lecito, piano – di chi dice che: 1) le gocce omeopatiche fanno guarire dalla bronchite, perché il mio bambino è stato meglio; 2) la somatostatina e i flavonoidi sono una cura conto i tumori perché il mio paziente e’ sopravvissuto in buona salute per due anni: 3) il tè all’artemisa è il rimedio contro il Covid-19 che le potenze occidentali ci nascondono; 4) il vaccino fa male perché conosco il cugino di uno che conosce uno che si è vaccinato ed è diventato autistico 5) il virus è clinicamente morto perchè nel mio reparto non vedo malati.

Chi ha interesse e ha a cuore la dignità della ricerca biomedica e clinica dovrebbe ribellarsi a tali esternazioni. Non è possibile che vengano impiegate nel dibattito pubblico, in un momento in cui tutti noi cittadini siamo disperatamente alla ricerca di linee guida, pubblicazioni non pubblicate, deviazioni standard della stessa dimensione delle medie, misure senza intervalli di confidenza, confusione tra rischi relativi e rischi assoluti, citazioni aneddotiche in guisa di osservazioni statistiche, confusione tra tipi di studi clinici, non comprensione delle basi della farmacologia, ed avanti cosi. Invece siamo assordati dal silenzio dei custodi del metodo scientifico, che si indignano, che sono pronti a difendere con i denti la forma e scandalizzarsi degli avverbi altrui, che dichiarano bias, ma che scompaiono quando le fondamenta di ciò che intendono, sacrosantamente, difendere vengono minate da affermazioni ridicole di chi “vorrebbe ma non può”…

 

8.) NUOVE DAL FRONTE DEGLI ANTICORPI MONOCLONALI

30 dicembre 2020

Purtroppo siamo stati abituati in questi ultimi mesi a leggere le informazioni scientifiche nei press release diretti agli investitori delle aziende farmaceutiche. Bisogna prendere queste informazioni quindi con grande cautela, ma questo è quello che passa il convento e bisogna accontentarci.

Ieri sera è uscita una press release di Regeneron (che ha il suo cocktail di due anticorpi approvato per uso emergenziale negli USA) che annuncia dei risultati ad interim interessanti di uno studio di fase 3 su pazienti OSPEDALIZZATI e trattati con OSSIGENO. Ecco il comunicato: https://investor.regeneron.com/…/regeneron-announces…

I dati, qualora confermati, sono di un certo interesse e andranno seguiti con attenzione.

Il primo dato interessante da considerare è che viene confermato la sostanziale inefficacia del trattamento nei pazienti sieropositivi al momento della randomizzazione, mentre alcuni endpoint sembrano raggiunti nei pazienti sieronegativi. Questo risultato era già stato pubblicato sul NEJM (https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMoa2035002) ma non aveva avuto molto enfasi. Il risultato mi pare molto interessante scientificamente anche se la logica conclusione è che occorra stratificare gli eventuali destinatari del trattamento per il titolo di anticorpi, aggiungendo difficoltà a difficoltà, e ponendo questioni ancora più impellenti relativamente al timing del trattamento

Il secondo dato, ancora più interessante, perché in contrasto con quanto già pubblicato per altri prodotti, è che il cocktail Regeneron ha SUPERATO il test di futilità, su cui invece Bamlanivimab della Lilly aveva palesemente fallito. Se, ripeto se, i dati saranno confermati (anche sul press release i dati di significatività statistica appaiono un po’ stiracchiati, ma attendiamo) la cosa è da seguire con attenzione.

Il corollario, banale, di questi dati è che chi raccontava (“eh gia’, l’sapemme” di perugino imprinting) che ‘era un’ovvietà’ che gli anticorpi non potessero funzionare nei pazienti ospedalizzati, non aveva le idee molto chiare.

Dò un suggerimento gratis, in maniera che chi è uso a figuracce quotidiane possa correggersi (non c’è bisogno di citarmi, io sono un chimico medicinale abituato a studiare, a leggere, e ad imparare prima di insegnare, e non me ne frega nulla degli show-off in campi a me del tutto indifferenti).

Il suggerimento è di leggersi (leggersi, non compulsare l’abstract) il lavoro di Akiko Iwasaki (su Medrxiv) riguardo alla cinetica della risposta anticorpale. La stratificazione fatta da Lilly su Blaze-1 e Active-3 era ovviamente sbagliata, basata su indicatori clinici errati (non bisogna distinguere tra mild e ospedalizzati ma apparentemente in base alla cinetica di comparsa degli anticorpi). Anzi come scrivevo qualche giorno fa, è assolutamente ragionevole pensare che se questi (actually, non ‘questi’, troppo poco potenti) anticorpi possano avere un significato clinico è proprio nel paziente ospedalizzato (oppure n profilassi pre/post esposizioni, ma è tutt’altra cosa).

In ogni caso, aspettiamo fiduciosi le pubblicazioni, Regeneron comunque è sicuramente l’azienda più focussed nel campo.

Quello che possiamo dire oggi è che:

1) l’idea di usare su larga scala l’approccio in monoterapia del bamlanivimab su pazienti con sintomi mild è, ovviamente, quantomeno prematura (anche se l’aggettivo che userei è un altro)

2) il campo degli anticorpi monoclonali è in fervido movimento. Con le giuste cautele per un approccio -quello contro le malattie infettive- che è da decenni studiato con risultati marginali, possiamo comunque esser fiduciosi di un progressivo aumento delle conoscenze. Esistono molto trial in essere, ed il fallimento del Bamlanivimab non deve certo esser considerato il fallimento dell’approccio. C’è Astrazeneca, c’è Vir-GSK, Toscana Life Science, Regeneron, e cosi via. Attendiamo fiduciosi.

3) Non è mai tardi per imparare! Basta studiare: in silenzio, con umiltà, ascoltando chi ha più esperienza.

 

9.) DOSIS SOLA FACIT…. (Paracelso, XVI secolo)

3 gennaio 2021

Qualche giorno fa avevo commentato un po’ i dati pubblicati sull’anticorpo Bamlanivimab contro il virus SARS-Cov2, e qualcuno potrebbe ricordare che il mio principale punto di perplessità era la mancanza totale di effetto dose-risposta ed il fatto che semplici (forse semplicistici, lo concedo) calcoli stechiometrici suggeriscono che il dosaggio autorizzato negli USA per uso emergenziale è FORTEMENTE sottodosato (https://www.facebook.com/gabriele.costantino.50/posts/10221212163607123).

Oggi ad un livello ben più alto del mio la questione viene ripresa da una lettera ed una risposta pubblicata su New England Journal of Medicine (https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMc2033787), in cui il problema della mancanza di effetto dose risposta viene risollevato in maniera molto puntuale, e in cui la risposta degli autori dello studio Lilly conferma il problema e conferma che l’end point primario -da loro scelto- nello studio di fase 2 non è stato raggiunto a nessun dosaggio.

E’ ovvio che l’idea di proporre trial su larga scala nella popolazione senza aver chiarito gli aspetti farmacocinetici e senza aver definito neppure l’ordine di grandezza del dosaggio efficace è davvero curiosa.

Tra l’altro, l’autorizzazione (non approvazione, sono cose ben diverse) per uso emergenziale negli USA non richiede aggiustamento del dosaggio, il che francamente è veramente incredibile: si suggerisce di trattare con 0.7 grammi un’adolescente di 17 anni che pesa 45 Kg e con lo stesso dosaggio un 60enne obeso che ne pesa 140? Ma si ha un’idea di cosa sia il volume di distribuzione? Si è fatto un calcolo della concentrazione (eventualmente) neutralizzante?

La cosa è ancora più preoccupante nel contesto delle numerose indicazioni che stanno emergendo circa la forte pressione selettiva che trattamenti inappropriati su pazienti immunocompromessi (quelli cioè su cui eventualmente il trattamento avrebbe senso, cft i dati Regeneron) hanno su varianti resistenti. In particolare, si fa riferimento all’uso di plasma da convalescente somministrato largamente con scarsità di evidenza. L’idea che vi siano migliaia di dosi di un anticorpo con molta probabilità sottodosato e sviluppato da un malato di Aprile (che antigenic drift c’è stato da Aprile ad oggi?) somministrati a pazienti positivi è molto, molto preoccupante. Speriamo di non dovercene occupare ancora tra qualche mese….

 

10.) QUALCHE APPROFONDIMENTO SULL’APPROVAZIONE DEI FARMACI

11 gennaio 2021

L’inchiesta del Fatto Quotidiano del dicembre scorso relativa alla questione degli anticorpi monoclonali della Lilly ha portato alla luce due questioni che penso possano esser di interesse per chi, in questi mesi, si è interessato ai farmaci in maniera più approfondita del solito. Non voglio parlare degli aspetti di efficacia, che sono stati ampiamente e con interesse dibattuti in varie forme con idee ed ipotesi diverse, quanto dei cosiddetti ‘aspetti regolatori’ che sono spesso oscuri sebbene di grande impatto per tutti noi che facciamo uso dei farmaci.

La considerazione preliminare che credo sia opportuno fare è che nonostante il loro enorme valore etico, i farmaci (medicinali) sono prodotti commerciali, sottoposti a specifica regolazione.

La seconda considerazione, apparentemente sconnessa dalla prima e su cui più volte ho provato a commentare nelle scorse settimane, è che un conto è ciò che fa o può fare un singolo medico, un conto è come si muove il sistema sanitario nazionale (e regionale), nel contesto della salute e dell’interesse (anche economico) pubblico.

Entrambe le questioni (aspetti commerciali dei farmaci, e impatto sulla pratica medica e sull’interesse pubblico) sono regolate dalle Agenzie nazionali del Farmaco (in Italia AIFA). Quando si parla di ‘approvazione da parte di AIFA’ si intende una serie di atti amministrativi che coprono essenzialmente le due questioni. La prima, è quella di associare ad ogni prodotto medicinale (inclusi quelli biotecnologici) una ‘patente amministrativa’ denominata AIC (Autorizzazione Immissione in Commercio). AIC è l’atto amministrativo che consente di impiegare un farmaco in Italia, ed è emesso in tutela sia del titolare dell’autorizzazione, del cittadino, che del Sistema Sanitario. Il titolare della AIC è responsabile in tutto e per tutto (penalmente, civilmente, amministrativamente) relativamente a ciò che  è scritto nella Autorizzazione, incluso il dosaggio, il campo di applicazione, il casi di esclusione, gli effetti avversi etc. L’autorizzazione è quindi una tutela per il cittadino, ed anche una tutela per il medico, che se prescrive il farmaco nell’ambito dell’AIC di quel farmaco, non ha responsabilità di eventuali eventi avversi.

Questo non vuol dire naturalmente che il medico può impiegare un farmaco solo nel contesto delle patologie e delle posologie definite dalla AIC, ma può impiegarlo come crede, ASSUMENDOSENE le responsabilità. Ad esempio, un medico può decidere che io abbia bisogno di 750 mg di sildenafil anziche 100 mg, prepara una ricetta magistrale, annota la frase ‘SIC VOLO’ (così voglio, per confermare al farmacista che non si tratta di errore) e il farmacista prepara i medicamento (spedisce la ricetta, si dice) come vuole il medico. Se muoio per collasso ipotensivo, il medico potrà esser ritenuto responsabile (in un processo) per un uso ‘off label’ inappropriato.

L’altro aspetto della AIC è: l’autorizzazione inserisce il farmaco in una fascia (A, C, H) che ne stabilisce la dispensabilità, il prezzo, e la eventuale rimborsabilità da parte del Sistema Sanitario Nazionale. Ad esempio, gli anticorpi monoclonali attualmente in uso per malattie reumatiche, autoimmuni, oncologiche, sono tutti rimborsati dal SSN (i trattamenti costano decine e decine di migliaia di euro all’anno, quando va bene). Devono esser quindi prescritti dallo specialista, con un piano terapeutico, in cui si definisce la patologia, il dosaggio e la conformità alla AIC. Questo è a tutela sia del paziente che del SSN, che esborsa una cifra non indifferente nei limiti dell’autorizzazione concessa. Quindi, il secondo, importantissimo, intervento di AIFA è quello di stabilire il prezzo e le eventuali condizioni di rimborsabilità.

Quindi, DI NORMA, in Italia si definisce medicinale, è può esser venduto al pubblico (tramite il farmacista, o l’ospedale) solo un prodotto per cui sia stata concessa una AIC.

E’ dunque possibile, in Italia, che un paziente assuma un farmaco senza AIC? Si, in realtà è possibile.

E’ dunque possibile, in Italia, che un paziente o il Sistema Sanitario Nazionale paghi qualcosa per un farmaco senza AIC? No, non è possibile.

E qui torniamo all’inchiesta del Fatto Quotidiano. L’inchiesta del quotidiano si basava su due punti, entrambi abbastanza imprecisi. Il primo, rimarcando il fatto che veniva prospettata la fornitura gratuita (ricostruzione smentita per altro dall’AIFA) di 10.000 dosi. Il secondo, facendo riferimento ad una legge, la 648/98, su cui spenderò le ultime righe.

Per quanto riguarda il primo punto, non si capisce bene che argomento sia. Non avendo gli anticorpi monoclonali di cui si parlava una AIC in Italia, l’unico modo per impiegarlo (in uso compassionevole, dietro richiesta di un centro clinico ed approvazione del comitato etico; oppure in uno studio clinico approvato) è appunto, in uso gratuito. Se effettivamente Lilly fosse stata interessata a sponsorizzare uno studio clinico, era ovvio (e non motivo di merito) che avrebbe dovuto fornire il farmaco gratuitamente. Egualmente, se un centro clinico avesse per esempio chiesto l’uso compassionevole del farmaco, ad esempio basandosi sui risultati già valutati da FDA, avrebbe potuto ben farne richiesta al suo comitato etico, all’AIFA, e in caso (immagino positivo) di approvazione, Lilly se interessata avrebbe dovuto – per legge – fornire il farmaco gratuitamente.

Il secondo punto che emerge dall’inchiesta è però più interessante. Il Fatto Quotidiano ripetutamente in molti articoli cita la legge 648/98 come il mezzo amministrativo con cui l’Italia avrebbe potuto impiegare gli anticorpi non autorizzati. Questo è molto sbagliato! La legge 648 prevede i criteri di RIMBORSABILITA’ di farmaci non approvati o off-label (ed infatti questo è coerente con il fatto che Lilly, secondo AIFA, abbia fatto una proposta di acquisto al Governo Italiano).

Tuttavia RIMBORSARE un farmaco non autorizzato (o l’uso off-label di un farmaco autorizzato) è procedura di assoluta eccezionalità e molto dibattuta nel diritto europeo (ad esempio, in Francia la procedura è vietata, e lo stesso in Germania). I motivi sono molteplici, ma uno di quelli meno compresi ma molto importante, è la tutela della concorrenza. Supponete io abbia sviluppato un farmaco contro le unghie incarnite. Ho avuto l’idea, ho sintetizzato migliaia di molecole, ho fatto gli studi preclinici, ho richiesto la IND, ho fatto la fase I, la fase II, la fase III. Ho richiesto la AIC, ho concordato il prezzo con AIFA. A questo punto, arriva, chessò Pfizer, e chiede l’autorizzazione off-label per il Viagra® per trattare le unghie incarnite. E’ ovvio che ne avrebbe un vantaggio enorme, perché potrebbe vedersi rimborsare il farmaco come me, senza averne sostenuto tutte le spese di sviluppo! Quindi, Pfizer sarebbe tenuta a dimostrare un vantaggio enorme rispetto al mio farmaco, per giustificare un tale vantaggio economico.

Nel caso degli anticorpi si potrebbe dire: si, ma in quel caso non c’è trattamento alternativo, ed il vantaggio è tutto per il paziente e per il SSN. Evidentemente non è cosi. In primis, i vantaggi non sono dimostrati in nessuno studio clinico, ma solo auspicati. Secondo, esistono diversi prodotti della stessa classe in analoga fase di sperimentazione. Perchè mai una ditta dovrebbe avere un vantaggio esclusivo? Credo che ciò che sia accaduto quindi sia una applicazione da manuale delle leggi da parte di AIFA. Una ditta aveva due strade: 1) sponsorizzare (e pagare) uno studio clinico, la cui autorizzazione in ambito Covid-19 è stata avocata in maniera centralizzata da AIFA; 2) presentare domanda di AIC, che, per i prodotti biotecnologici, a norma di legge deve richiedere la valutazione scientifica di EMA (procedura centralizzata). Siccome non risulta da nessun documento pubblico nessuna delle due evenienze (nessuna richiesta di studio clinico, nessuna domanda presentata ad EMA, e comunque, nessun parere concesso) davvero ho difficoltà a comprendere l’argomento del dibattere.

Ho voluto scrivere queste poche righe per riflettere sul fatto che decisioni relative all’impiego di farmaci frequentemente coinvolgano una serie di ambiti diversi da quello puramente scientifico o tecnico, che dovrebbero essere comunque sempre presi in considerazione. Spesso i dibattiti scientifici o di interesse pubblico catturano così tanto la nostra attenzione che a volte si trascende con le espressioni e la polemica sulle idee viene spostata, cosa che non dovrebbe avvenire, sulle persone. Qualche settimana fa, proprio parlando della questione degli anticorpi monoclonali ho usato l’espressione ‘procacciatore d’affari’ che era senz’altro infelice e nulla aggiungeva alla critica sul punto e me ne scuso, auspicando che il confronto rimanga sulle idee e sia sempre rivolto alla crescita e mai alla polemica sterile.

 

 

 

avete pensieri da condividere?