elogio del nulla

Un mio amico mi avrebbe quasi un po’ tirato le orecchie, l’altro ieri, perché ho tirato in ballo l’idea del nulla, aggiungendo persino che avrei potuto scriverne l’elogio. Lo so, e sappiamo tutti che il nulla non esiste, in senso materiale e fisico, intendo dire. Il nulla, come l’infinito, sono concetti che possiamo immaginare, anche se, concretamente, non sono parte della nostra esperienza umana.
Sarebbe altresì superfluo scriverne l’elogio, poic
hé l’Elogio del nulla è già stato scritto. Come molte cose, ne avevo un vago ricordo e ho dovuto perderci del tempo per cercarlo “non so dove” – su o giù o qua o là?
Mentre lo sto cercando, ripasso mentalmente ciò che si dice sul nulla, un po’ a casaccio, che non ho certo voglia di infilarmi (di nuovo) in un trip  metafisico-ontologico.
Suvvia, che il nulla non esiste, l’aveva già detto Parmenide, innanzitutto, il terribile. Più che terribile, è così semplice che lo capisce anche un bambino – lo stesso che, crescendo, avrà poi le idee un po’ confuse o aggrovigliate; come se “crescere”, diventare adulti, debba comportare il complicarsi la vita. 


“Occorre dire e pensare che l’essere è;
esiste infatti l’essere;
ma il nulla non esiste”.


Così dice Parmenide.
Esti’ gar einai. A me quello che fa più strano è quell’“occorre”. Occorre, bisogna, devi dire e pensare che l’essere è, mentre il nulla non esiste. Sembra voler dire che il nulla ci fa orrore, ci terrorizza. Cosa per cui è bene per noi starne lontani. Poiché sarebbe come entrare in una contraddizione senza scampo, che porterebbe distruzione, caos, e scompiglio inesorabile nelle nostre vite.
Ci sono parole come ‘nulla’, o come la “parola ‘infinito’, parola (e poi concetto) di spavento che abbiamo generato temerariamente e che una volta ammessa in un pensiero, esplode e lo uccide”. Questo osserva anche Borges, riflettendo sul paradosso di Zenone (
La perpetua corsa di Achille e la tartaruga, in Discussione). Sia l’uno – il nulla – che l’altro – l’infinito – non fanno parte della nostra esperienza. L’ho già detto? Già. Se però riusciamo ad accontentarci di spiegazioni semplici, la spiegazione fisica risulta la più attendibile.
Quando un bicchiere è vuoto, potrei dire che non v’è nulla: mentre so bene che se non v’è altro, di sicuro vi è dell’aria. Persino se creo un vuoto pneumatico, in un certo contenitore delimitato, rimane lo spazio in quel contenitore delimitato, e l’osservatore che lo sta guardando. Almeno finché e se non implode, o l’uno o l’altro.
Eppure pronunciamo questa parola con disinvoltura senza darci troppa pena. Cosa c’è fra una cosa e l’altra? Nulla. Anche Aristotele sosteneva che se fra una cosa e l’altra non c’è nulla, allora non c’è nulla. Ovviamente questa è una spiegazione macroscopica di ciò che appare. Per noi l’idea di spazio è abbastanza semplice. Dopo 2300 anni, ora sappiamo che le cose sono collegate, tenute insieme dai campi gravitazionali; che le cose sono in relazione, e che
tutte le caratteristiche di un oggetto esistono solo rispetto ad altri oggetti. Così come non esistono grandezze assolute. La velocità di un oggetto esiste solo rispetto alla velocità di un altro oggetto. Il potere, idem. Il peso o la leggerezza. Ogni proprietà di una cosa  esiste solo rispetto alla proprietà di altre.
Cosa dà senso alla mia vita? Nulla, rispondo. Ossia nulla di particolare. Né questo né quello né altro né qualcos’altro. Solo, probabilmente tutto quanto. Un tutto quanto che però è impossibile cogliere per intero.
La galassia, quella che mio padre forse non ha mai visto… e che noi vediamo solo in parte: come fai a guardarla dal di fuori e per intero se ci sei dentro, se ne sei parte?
Intanto sto cercando ancora quel libricino. Ricordo solo che era piccolissimo. Forse è il libro più piccolo nella mia libreria che è sparsa un po’ qua e là, come dicevo. E si sa che le cose piccole hanno il vizio di nascondersi, quasi sommerse da tutto il resto, come schiacciate da quelle più grandi. Ma eccolo. Trovato! Ora ricordo, infatti, è azzurro.
È un minuscolo gioiello, proprio nel significato di piccola gioia, che si può leggere in una decina di minuti o poco più. Quindi possiamo rileggerlo due volte in una mezz’ora, giusto per non lasciarci sfuggire nulla – per l’appunto, proprio così.
È datato 2002, o almeno questo era l’anno in cui forse l’avevo letto. Aggiungo solo che non ne ricordavo, coscientemente, nemmeno una parola; ma mi è abbastanza chiaro che anche le cose apparentemente dimenticate continuano ad esistere e a fare il loro lavoro, anche se non ce ne rendiamo conto.
L’aspetto stilistico di questo testo di Bobin, questo suo insistere singhiozzante di frasi minime, oggi come oggi a qualcuno potrebbe risultare persino irritante. M’è venuta quasi voglia di riscriverlo, a modo mio. Ovviamente non sarei in grado, e forse neppure vorrei raggiungere i picchi lirici che lui raggiunge. Per me sarebbe eccessivo, e non sono lui. Ma a cosa gioverebbero i poeti, altrimenti? O qualsiasi altra cosa, o persona, che non sia ‘me’? D’altro canto, nel complesso, concettualmente, potrei sottoscrivere molti dei pensieri che esprime – sempre tenendo presente che 
solo concettualmente sarebbero nulla. In realtà, più che l’elogio del nulla, è un elogio al poco.  Al quanto basta. Che, anzi, è molto. È molto riuscire a dare valore alle cose che ci circondano, con cui siamo in relazione.  A partire da sé, ovviamente. Ho sempre pensato che solo amando prima se stessi possiamo riuscire poi ad amare altro. Molto altro. Non c’è contraddizione in questo. Non è altro che un naturale movimento di espansione.  Buona lettura.

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foresta-di-broccaliande

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«La sua lettera è là sul bordo della credenza. Aspetta. Da quasi una settimana attende una risposta. Una piccola donna modesta, con la gonna un po’ spiegazzata, le frasi incrociate sulle ginocchia. A ogni mio sguardo pone nuovamente la sua domanda. E non sempre so rispondere. La vedo tutti i giorni. Passo molto tempo in questa cucina. Vi assaporo un silenzio che le luci della strada fanno tintinnare come cristallo. Da una settimana, questo silenzio è segretamente turbato dalla sua lettera. Lei mi chiede un testo per la sua rivista. Un testo, o almeno qualche frase. Che graviti intorno a questa domanda. Cosa dà senso alla sua vita? Vede, quando ho letto questa formulazione, mi sono trovato ricondotto all’infanzia, nell’aula degli esami; scrivete il cognome in alto, a sinistra del foglio. Rileggete bene il vostro tema. Potete usare il dizionario. Non sono mai stato molto portato per gli esami. Non che fossi un cattivo alunno, come si suol dire. Quando indovinavo cosa ci si aspettava da me, allora lo davo. Facevo dell’arte di apprendere un’arte davvero sottile dell’offerta: bisogna dare all’altro ciò che egli si aspetta, non ciò che auspicate per voi. Ciò che spera, non ciò che siete. Perché ciò che spera non è mai ciò che siete, è sempre un’altra cosa. Ho imparato molto presto, dunque, a dare quello che non avevo. La scrittura l’ho dovuta cominciare così. La scrittura, l’amore e il resto. Di sicuro. Così ottenevo dei buoni voti in francese. Per le altre materie ero costretto a imparare tutto a memoria: la mia noia, e l’assoluta mancanza d’attenzione che ne seguiva, mi mettevano troppo in pericolo. Non c’era altra soluzione che lo studio parola per parola, privo di senso, è chiaro. Imparavo l’essenziale a scuola. Imparavo l’imitazione dell’intelligenza, l’imitazione dell’interesse, l’imitazione della vita. Imparavo come tutti quanti, a mentire, a crescere. Che cos’è un adulto? È qualcuno che mente. Mente non su questa o quella cosa, ma su ciò che è. Un bambino diventa adulto quando è capace di una menzogna profonda, essenziale. Mi servivo dunque, più o meno abilmente, di quest’arte della parvenza. Lo facevo su tempi molto brevi. Mi sembrava inopportuno dire in venti righe quanto poteva dirsi in dieci. Spesso una parola basta. Anche nessuna. Per tutte queste ragioni ho avuto voglia di risponderle molto in fretta, con un telegramma: “Cosa dà senso alla mia vita? Nulla, e soprattutto non la scrittura. Perché suppongo che lei mi interroghi in ragione di qualche libro che ho scritto. Si fanno sempre troppe domande agli scrittori. Come fossero detentori di un sapere abbondante, disponibile giorno e notte. Come se si scrivesse a partire da un sapere. È vero il contrario. Si può scrivere esclusivamente di ciò che si ignora. Si può scrivere solo muovendosi verso l’ignoto – e non per conoscerlo, ma per amarlo. Filosofi e mistici hanno ricamato molto su questo tema. Hanno tessuto pesanti pastrani. I filosofi mi annoiano. La loro lingua è amara. Il loro desiderio è troppo impaziente per essere davvero mai soddisfatto. I mistici m’incantano quanto vivono d’amore e d’acqua pura, non quando pensano. Non si può pensare quando si è innamorati. Si è troppo impegnati a bruciare la propria casa. Non si conserva per sé alcun pensiero. Li si spedisce tutti verso l’amata, come colombe, come stelle, come ruscelli. Essere innamorati è essere ubriachi come quell’uomo, ieri, per strada. Avanzava, stordito dal bere. La voce forte, il gesto ampio, s’intratteneva in conversazione con se stesso. D’un tratto ha frugato nel cappotto, ne ha tirato fuori del denaro e lo ha gettato, a manciate, sulla strada. Poi se ne è andato, sprezzante della sua fortuna. Slegato da sé. Distaccato da qualsiasi reame. Sì, è un po’ essere così, essere innamorati. Vuotarsi le tasche. Perdere il proprio nome. Scoprire, rapiti, la certezza di non essere nulla. Ma io mi allontano dalla sua domanda. A meno che non sia come giunto al suo centro: solo l’amore dà senso alla mia vita, rendendola insensata a sé stessa. Che cosa dire di più? La mia vita mi sfugge. Non mi raggiunge che in mia assenza. Nel chiarore di un pensiero indifferente ai miei pensieri. Nella purezza di uno sguardo indifferente ai miei desideri. La mia vita fiorisce lontano da me. Me ne separo quando vado nel mondo. La ritrovo contemplando il cielo. Il cielo materiale, dipinto di blu e d’oro. Le luci che vi soggiornano sono lettere d’amore. Un amore senza appartenenza. Senza avidità. Un amore che non vi domanda niente, se non di esserci. Che, mentre passa, vi dona l’eterno. Ogni cielo ha la sua sfumatura, ogni lettera ha il suo momento. Non sono veramente destinate a me. Le leggo lentamente. Solo la sera le restituisco. Andrà bene questa risposta? Lei si accontenterà di un angolo di cielo blu? Temo di essere fuori tema. Non capisco appieno la sua domanda. Perché ai nostri giorni occorrerebbe un senso? Per salvarli? Ma non ne hanno bisogno. Non c’è perdita nelle nostre vite, perché le nostre vite sono perdute da sempre, perché continuano a svanire momento per momento. Nella sua lettera una parola mi infastidisce. La parola “senso”. Mi permetta di cancellarla. Guardi cosa diventa la sua domanda, come si presenta bene adesso. Aerea, agile: “Cosa le dà la vita?” stavolta la risposta è facile: tutto. Tutto ciò che non è me e mi illumina. Tutto ciò che ignoro e che aspetto. L’attesa è un fiore semplice. Germoglia sui bordi del tempo. È un fiore povero che guarisce tutti i mali. Il tempo dell’attesa è un tempo di liberazione. Essa opera in noi a nostra insaputa. Ci chiede soltanto di lasciarla fare, per il tempo che ci vuole, per le notti di cui ha bisogno. Lo avrà senza dubbio notato: la nostra attesa – di un amore, di una primavera, di un riposo – viene sempre soddisfatta di sorpresa. Come se quello che speravamo fosse sempre insperato come se la vera formula dell’attendere fosse questa: non prevedere niente, se non l’imprevedibile. Non aspettare niente, se non l’inatteso. Questo sapere mi viene da lontano. Sapere che non è un sapere, ma una fiducia, un mormorio, una canzone. Mi viene dall’unico maestro che io abbia mai avuto: un albero, tutti gli alberi nella sera trepida. Mi ammaestrano con il loro modo di accogliere ogni istante come una buona ventura. L’amarezza di una pioggia, la follia di un sole: tutto è nutrimento per loro. Non hanno preoccupazione di nulla, e soprattutto di un senso. Attendono di un’attesa radiosa e tremula. Infinita. Il mondo intero poggia su di essi. Il mondo intero poggia su di noi. Dipende da noi che si spenga o che si infiammi. Dipende da un granello di silenzio, da un pulviscolo dorato – dal fervore della nostra attesa. Un albero che risplende di verde. Un viso inondato dalla luce. Questo basta per ogni giorno. Anzi, è molto. Vedere ciò che è. Essere ciò che si vede. Smarrirsi nei libri, o nei boschi. La natura sommerge i libri. L’erba ricopre il pensiero. Il verde assorbe l’inchiostro. Attraversare una terra è come esaurire un amore. Quello che attraversiamo ci cambia. Il paesaggio affluisce nel corpo. Il vento si ingolfa nel sangue. Il cielo trova la via per il cuore. Guardiamo gli uccelli indaffarati su un albero dalla fitta chioma rigogliosa. Si chiamano, si rispondono, il becco picchiettato dall’ombra. Piccoli mendicanti gioiosi sotto il mantello del re. Prendiamo tra le dita una farfalla secca, attaccata ad una foglia di gelso. L’arte di camminare è un’arte contemplativa. All’inizio si guarda quello cui si passa accanto, poi lo si diventa. Non si è più che la traversata luminosa del paesaggio. Si è soltanto, se stessi, una farfalla morta, polverizzata dal vento. Non si lotta più con l’aria, con il vuoto dell’aria, con gli angeli nel vuoto. Si è come in quella storia che la mamma raccontava al bambino: “Quando avevo la tua età ero così piccolina che il vento, in una giornata di rabbia, mi ha sollevato e portato molto lontano, con il mio ombrello rosso – rosso come una coccinella, rosso come una parole d’amore, amore mio”. Si è nelle migliori mani che ci siano, quelle del vento, del nulla innocente di ogni giorno. Portati via, abbandonati, ripresi. Che altro? Il lavoro: nulla. Il pensiero: è niente. Il mondo: è niente. La scrittura che è lavoro, pensiero, mondo: niente. Resta l’amore che ci solleva da tutto senza salvarci da nulla. La solitudine in noi è come una lama, conficcata profondamente nella carne. Non possiamo estrarla senza ucciderci all’istante. L’amore non revoca la solitudine. La porta a compimento. Le apre tutto lo spazio per bruciare, come bruciare al calor bianco. Una schiarita nel sangue. Una luce nel respiro. Niente di più. E tuttavia mi sembra che una vita intera sarebbe leggera, affacciata su questo nulla. Leggera, limpida: l’amore non oscura ciò che ama. Non l’oscura perché non cerca di prenderlo. Lo lascia andare e venire. Lo guarda allontanarsi con passo così felpato che non lo si sente spegnersi: elogio del poco, lode del debole. L’amore viene, l’amore va. A suo tempo, mai al nostro. Chiede, per venire, tutto il cielo, tutta la terra, tutto il linguaggio. Non potrebbe resistere nella costrizione di un senso. Nemmeno saprebbe accontentarsi di una felicità. L’amore è libertà – la libertà non va a braccetto con la felicità. Si accompagna alla gioia. La gioia è come una scala di luce nel nostro cuore. Porta ben più in alto di noi, ben più in alto di sé: là dove non c’è più niente da afferrare, se non l’inafferrabile. Certo, non rispondo più veramente: io canto. Ma si può chiedere all’uccello la ragione del suo canto? »

[Christian Bobin, Elogio del nulla, 2002 servitium editrice. Titolo originale: Èloge du rien, 1990]

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4 pensieri riguardo “elogio del nulla”

  1. La vita è quella cosa che quando c’è, tu non ci sei. La si può riempire con questo o con quel contenuto cui diamo particolare valore, ma non si può fare di più, credo.

    Comunque, a proposito di vita, voglio segnalarti un simpatico (e convincente) video del cantautore romano Alessandro Mannarino, che spero apprezzerai. La sua canzone si intitola “Vivere la vita”, per l’appunto..

    A presto,
    Francesco

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