il giardino dei sentieri che si biforcano

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Il_giardino_dei_sentieri_che_si_biforcano, (1941) è un romanzo poliziesco – sostiene Borges nella premessa alla raccolta Finzioni. “I lettori assisteranno all’esecuzione di un delitto il cui scopo non ignorano, ma che non comprenderanno, mi sembra, fino all’ultimo paragrafo”.
Da parte mia, non ho resistito a trascriverne una buona parte (non tutto). Diversamente sarebbe parso riduttivo, oltre che crudele, privarsi del piacere della lettura; ma anche per aver la (quasi) certezza che non lo leggerà fino in fondo forse nessuno.

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illusioni

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****[…]
****Stephan Albert mi osservava, sorridente. Era (l’ho già detto) molto alto, di tratti affilati, con occhi grigi e barba grigia. V’era in lui qualcosa del sacerdote e anche del marinaio; mi disse poi di essere stato missionario a Tientsin «prima di aspirare a sinologo».
****Ci sedemmo; io su un divano lungo e basso, lui di spalle alla finestra e a un alto orologio circolare. Calcolai che il mio inseguitore non sarebbe arrivato prima di un’ora. La mia irrevocabile determinazione poteva aspettare.
****«Strano destino quello di Ts’ui Pên» disse Stephen Albert. «Governatore della sua provincia natale, dotto in astronomia, in astrologia e nell’interpretazione infaticabile dei libri canonici, scacchista, famoso poeta e calligrafo: tutto abbandonò per comporre un libro e un labirinto. Rinunciò ai piaceri dell’oppressione, dell’ingiustizia, del letto numeroso, dei banchetti, e anche dell’erudizione, e si chiuse per tredici anni nel Padiglione della Limpida Solitudine. Alla sua morte, i suoi eredi non trovarono che manoscritti caotici. La famiglia, come lei forse non ignora, volle darli alle fiamme; ma il suo esecutore testamentario – un monaco taoista o buddista – insistette per la pubblicazione. »
****«Noi del sangue di Ts’ui Pên» replicai, «continuiamo ad esecrare quel monaco. La pubblicazione fu insensata. Il libro è una confusa farragine di varianti contraddittorie. Una volta l’esaminai. Nel terzo capitolo l’eroe muore, nel quarto è vivo. E quanto all’altra impresa di Ts’ui Pên, al suo Labirinto …»
****«Ecco il Labirinto» disse indicandomi un alto scrittoio di lacca.
****«Un labirinto d’avorio!» esclamai. «Un labirinto minimo …»

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Escher, Relativity (1953)


****«Un labirinto di simboli» corresse. «Un invisibile labirinto di tempo. A me, barbaro inglese, è stato dato di svelare questo mistero diafano. A distanza di più di cent’anni, i particolari sono irrecuperabili, ma non è difficile immaginare ciò che accadde. Ts’ui Pên avrà detto qualche volta: “Mi ritiro a scrivere un libro”. E qualche altra volta: “Mi ritiro a costruire un labirinto”. Tutti pensarono a due opere, nessuno pensò che libro e labirinto fossero una cosa sola. Il Padiglione della Limpida Solitudine sorgeva al centro di un giardino forse intricato; il fatto può aver suggerito agli uomini l’idea di un labirinto fisico. Ts’ui Pên morì; nessuno, nelle vaste terre che erano state sue, trovò il labirinto; fu la confusione del romanzo a suggerirmi che il romanzo fosse il romanzo stesso. Due circostanze mi dettero la retta soluzione del problema. Una: la curiosa leggenda secondo cui Ts’ui Pên s’era proposto un labirinto che fosse strettamente infinito. L’altra: una frase in una lettera che scoprii.»
****Albert si alzò. Per qualche mi voltò le spalle; aprì un cassetto del dorato e annerito scrittoio. Tornò con un sottile foglio a quadretti, che era stato cremisi e ora era rosa. La fama di calligrafo di Ts’ui Pên era giusta. Lessi con incomprensione e fervore queste parole che con meticoloso pennello tracciò un uomo del mio sangue. «Lascio ai diversi futuri (non a tutti) il mio giardino dei sentieri che si biforcano». Voltai il foglio in silenzio. Albert proseguì:


Funabiki Keika, Sound of Koto (2)

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****«Prima di ritrovare questa lettera, m’ero chiesto in che modo un libro potesse essere infinito. Non potrei pensare che a un volume ciclico, circolare: un volume la cui ultima pagina fosse identica alla prima, con la possibilità di continuare indefinitamente. Mi rammentai anche della notte centrale delle Mille e una notte, dove la regina Shahrazad (per una magica distrazione del copista) si mette a raccontare testualmente la storia delle Mille e una notte, a rischio di tornare un’altra volta alla notte in cui racconta, e così all’infinito. Pensai anche ad un’opera platonica, ereditaria, da trasmettere di padre in figlio, e alla quale ogni nuovo individuo avrebbe aggiunto un capitolo, e magari corretto, con zelo pietoso, le pagine dei padri.

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Escher, Curl up (1951)

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Queste congetture mi attrassero, ma nessuna sembrava corrispondere, sia pure in modo remoto, ai contraddittori capitoli di Ts’ui Pên. Ero in questa perplessità, quando mi fecero avere da Oxford l’autografo che lei ha esaminato. Mi colpì la frase: “Lascio ai diversi futuri (non a tutti) il mio giardino dei sentieri che si biforcano”. Quasi immediatamente compresi; il giardino dei sentieri che si biforcano era il romanzo caotico; le parole ai diversi futuri (non a tutti) mi suggerirono l’immagine della biforcazione nel tempo, non nello spazio. Una nuova lettura di tutta l’opera mi confermò in quest’idea. In tutte le opere narrative, ogni volta che s’è di fronte a diverse alternative ci si decide per una e si eliminano le altre; in quella del quasi inestricabile Ts’ui Pên ci si decide – simultaneamente – per tutte. Si creano, così, diversi futuri, diversi tempi, che a loro volta proliferano e si biforcano. Di qui le contraddizioni del romanzo. Fang – diciamo – ha un segreto; uno sconosciuto batte alla sua porta; Fang decide di ucciderlo. Naturalmente vi sono vari scioglimenti possibili: Fang può uccidere l’intruso, l’intruso può uccidere Fang, entrambi possono salvarsi, entrambi possono restare uccisi, eccetera. Nell’opera di Ts’ui Pên, questi scioglimenti vi sono tutti, e ognuno è il punto di partenza di altre biforcazioni. Talvolta i sentieri di questo labirinto convergono: per esempio, lei arriva in questa casa, ma in uno dei passaggi possibili lei è mio amico, in un altro è mio nemico. Se si rassegna alla mia pronuncia incurabile, leggeremo qualche pagina.»
****[…]
****Ricordo le parole finali, ripetute in entrambe le versioni come per un comando segreto: «Così combatterono gli eroi, tranquillo e ammirevole il cuore, violenta la spada, rassegnati a uccidere o a morire ».

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TrkDragon3
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****Da quell’istante, sentii intorno a me e in me, nel mio corpo oscuro, un invisibile, intangibile pullulare. Non il pullulare dei divergenti, paralleli e finalmente coalescenti eserciti, ma un’agitazione più inaccessibile, più intima, e che coloro, in qualche modo prefiguravano.
****Albert proseguì:
****«Non credo che il suo illustre antenato giudicasse oziose queste varianti. Non giudico inverosimile che sacrificasse tredici anni dell’infinita esecuzione d’un esperimento retorico. Nel suo paese il romanzo è un genere subalterno; a quel tempo era un genere disprezzato. Ts’ui Pên fu romanziere geniale, ma fu anche un uomo di lettere che non si considerò, indubbiamente, semplice romanziere. La testimonianza dei suoi contemporanei proclama – e bene le conferma la sua vita – le sue tendenze metafisiche, mistiche. La controversia filosofica ha gran parte nel suo romanzo. So che, di tutti i problemi, nessuno lo inquietò né lo travagliò più dell’abissale problema del tempo. Ebbene, questo è l’unico problema di cui non sia mai questione nelle pagine del Giardino. La stessa parola che significa tempo non vi ricorre mai, in nessun caso. Come spiega lei questa volontaria omissione?»
****Proposi varie soluzioni, tutte insufficienti. Le discutemmo. Alla fine, Stephen Albert mi disse:
****«In un indovinello sulla scacchiera, qual è l’unica parola proibita?»
****Riflettei un momento e risposi:
****«La parola scacchiera».


Escher, Verbum (1942)

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****«Precisamente» disse Albert. «Il giardino dei sentieri che si biforcano è un enorme indovinello, o parabola, il cui tema è il tempo: è questa causa recondita a vietare la menzione del suo nome. Omettere sempre una parola, ricorrere a metafore inette e a perifrasi evidenti, è forse il modo più enfatico per indicarla. È il modo tortuoso che preferì, in ciascun meandro del suo infaticabile romanzo, l’obliquo Ts’ui Pên. Ho confrontato migliaia di manoscritti, ho corretto gli errori introdotto dalla negligenza dei copisti, ho congetturato il piano di questo caos, ho ristabilito, ho creduto di ristabilire, l’ordine primitivo, ho tradotto l’opera intera: non vi ho incontrato una sola volta la parola tempo. La spiegazione è ovvia: Il giardino dei sentieri che si biforcano è una immagine incompleta, ma non falsa, dell’universo quale lo concepiva Ts’ui Pên. A differenza di Newton o di Schopenhauer, il suo antenato non credeva in un tempo uniforme, assoluto. Credeva in infinite serie di tempo, in una rete crescente e vertiginosa di tempi divergenti, convergenti e paralleli. Questa trama di tempi che s’accostano, si biforcano, si tagliano o s’ignorano per secoli, comprende tutte le possibilità. Nella maggior parte di questi tempi noi non esistiamo; in alcuni esiste lei e io no; in altri io e non lei; in altri, entrambi. In questo, che è un caso favorevole mi concede, lei è venuto a casa mia; in un altro, traversando il giardino, lei mi ha trovato cadavere; in un altro io dico queste medesime parole, ma sono un errore, un fantasma.»

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Escher-Convex-and-Concave-1955
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****«In tutti,» articolai non senza un tremito «io gradisco e venero la sua ricostruzione del giardino di Ts’ui Pên.»
****«Non in tutti» mormorò con un sorriso. «Il tempo si biforca perpetuamente verso innumerevoli futuri. In uno di questi io sono suo nemico.»
****Tornai ad accorgermi di quel pullulare che ho detto. Mi parve che l’umido giardino che circondava la casa fosse saturo di all’infinito di persone invisibili. Queste persone erano Albert e io, segreti, affaccendati e multiformi in altre dimensioni del tempo. Alzai gli occhi e l’incubo leggero si dissipò. Nel giardino giallo e nero c’era un solo uomo; ma quest’uomo era forte come una statua; ma quest’uomo avanzava per il sentiero ed era il capitano Richard Madden.
****«Il futuro esiste già,» risposi «ma io sono suo amico. Posso esaminare di nuovo la lettera?»
****Albert si alzò. Alto, aprì il cassetto dell’alto scrittoio; mi volse un momento le spalle. Io avevo preparato la rivoltella. Mirai con somma attenzione: Albert crollò senza un lamento, immediatamente. Giuro che la sua morte fu istantanea: una folgorazione.

****Il resto è irreale, insignificante. Madden irruppe, m’arrestò. Sono stato condannato alla forca. Abominevolmente, ho vinto: ho comunicato a Berlino il nome segreto della città da attaccare. L’hanno bombardata ieri, l’ho letto negli stessi giornali che hanno proposto all’Inghilterra quest’enigma: perché il dotto sinologo Stephen Albert fosse stato assassinato da uno sconosciuto, Yu Tsun. Il Capo ha decifrato l’enigma. Sapeva che il mio problema era di indicare (attraverso lo strepito della guerra) la città che si chiama Albert, e che non ho trovato altro mezzo che uccidere una persona di questo nome. Non sa (nessuno può sapere) la mia innumerabile contrizione e stanchezza.

[Jorge Luis Borges, Il giardino dei sentieri che si biforcano – da Finzioni; Tutte le opere, ed. Mondadori (1984); pagg. 696-702.]

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Escher, Liberation (1956)

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