1944: FAIER

 

 

 

 

1944: FAIER. Ha voluto fosse scritto così, il contadino vecchio, sulla facciata della casa ricostruita dopo la guerra; che fosse fermato l’urlo com’era uscito dalla gola dell’incendiario: «faier», in quel giorno, mentre già le fiamme avvolgevano le case vicine e le donne venivano spinte fuori a calci.
     È un suono inarticolato, soprannaturale e bestiale a un tempo, è la formula che mobilita l’inferno: appaiono gli esse-esse, appare il sole d’agosto così smisurato da sembrare la causa del fuoco che sprizza qua e là e poi dovunque. Crepitano mitra, il fumo s’alza, travolge e soffoca; e i cadaveri degli ostaggi, tumefatti, sudano sangue ormai marcito, tra noccioli di pesca e semi di cocomero con cui sono stati bersagliati. Gli ostaggi sono stati scelti proprio perché impossibilitati a difendersi, perché sicuramente inermi, ed ecco gli inermi appoggiati al muro; c’è una differenza, tra l’armato e l’altro, come dal cielo all’abisso; l’altro è solo una misera grossa goccia di sangue e d’acqua, fatta per disintegrarsi al primo urto, nel forno plumbeo d’agosto.
    Eccoli gl’inermi, a rivelare nell’uomo qualcosa d’impudico che prima non si era notato: l’essere di carne. E, tra poco, ci saranno macchie sul muro, e a terra, una sostanza fredda e maleodorante invano segnata da una forma che allude all’umano. Gli altri, quelli di ferro, sono venuti avanti col pungiglione di ferro fin sotto gli occhi, hanno sparato e punto, e un frammento di cervello ha durato un attimo e inorridire sull’asfalto, tra gli sputi. (…)

Di notte, quando la terra diventa fantasma e noi non siamo nulla più che i sommessi bisbigli della sua vita, dai boschi delle montagne si vedono improvvisamente in basso, tra il vuoto dei rami, le costellazione di ulcere di zolfo che bucano la pianura. I rifugiati e le vittime che sono stati costretti a cercar le armi per la disperazione stanno appiattiti nella terra, tra fieno e campi. Notti all’addiaccio, dentro un lume di luna in cui sembra perduto e come imbalsamato ogni moto umano; e la luna è come strabica, lustra lente su un occhio invisibile che, fissando, paralizzi e scoraggi (ma, a un tempo, quanto libera, e sola, e irreale!). (…)

“Passano i cavalli di Wallestein, passano i fanti di Merode, passano i cavalli di Anhalt … Passa Altringer, passa Fürstemberg, passa Colorendo …”
C’è sempre chi guarda, trepidando, dall’alto, in difesa, c’è sempre, in basso, l’interminabile armata, la peste di fumo e gli scoppi; il catalogo comincia ma non finisce mai. Dagli anfratti neri del passato sbucano il ragno, il millepiedi, lo scarafaggio, lo scorpione; la storia è immobile come un anello di pietra che lascia trapelare viventi veleni, inimmaginabili mostri. Escono i dinosauri di ferro, contenti di snaturarsi nel ferro da ogni memoria umana. Zampe, rostri, acidi mortali; ieri deliranti pennacchi, oggi neutri automi. (…)

Ma intanto, che è dei morti, degli offesi per sempre? Restano sulle strade, così, e non chiedono nulla, ma nessuna pace, nessun cielo, nessun riposo li toglie alla nostra mente. Una catena ci lega a tutti loro, essi ci trascinano tutti insieme a bere i tossico del loro ultimo istante, del punto in cui conobbero quanto noi non possiamo immaginare che di straforo, per oppiate approssimazioni.
    Elda sta ancora, supina, sul termine del bosco – ventidue anni e il petto trapassato – e il volto offuscato per sempre dall’improvvisa e impossibile verità. E, anche se non ha più la forza di chiamare aiuto, Gino sta in agonia, perdendosi fiotto a fiotto dentro la terra, dalle due ore senza termine di quel tramonto. Egli è là assorto nel verde profondissimo del prato della sua infanzia, non può ancora veramente credere che tutto quanto gli è caro e gli sta attorno sia così sordo e duro e inerte, che la sua terra gli stia suggendo, stia riprendendogli tutte le forze. E se anche non ci sono più quelli che continuano a sparargli addosso e che si divertono a lasciargli invocare la mamma, anche se egli non grida più, la sua voce fa male in eterno agli orecchi, impedisce di respirare nella pace. (Ora se si passa vicino alla sua casa, verso l’aperta campagna, dalla finestra s’intravede del suo studio da allora deserto quel lume ad olio che arde davanti al suo ritratto; come palpita con umile inestinguibile ostinata domanda il tuo lume, Gino! E piogge e soli, e giorni e giorni di gelo e di arsura, e spazi immensi di silenzio ci sono fra te e noi: quale selva a toglierti al nostro sguardo…).

1944: FAIER. Ora gli anni sono più freddi, le stagioni hanno una luce più diluita, e quasi malsicura. La formula tace, come sotto un vetro che la rende non vera. E una mite paralisi, e una ignava volontà di dimenticare, ci sta intorno. Agosto con la sua calura appena giusta, e solo, nelle notti, ancora più acutamente lunari ed ebbre di freschezza e di lontananze, le ricamanti cascate di qualche fuoco d’artificio: feste di un istante a riproporre avventure e gioie di favola. Si può vagare la notte, ora, per i solchi e per i prati, con una deserta, dolente fiducia. (…) E in piena notte il ruscello parla e culla erbe giovani e pure, e più oltre c’è il vero silenzio, quello delle stelle.
     Ah Gino, Elda, e tu Antonio, caduto poco più tardi nella neve insanguinata, e voi tutti, morti allora, per noi, dove siete?
Ma qui non c’è che la luna attonita nella sua dolcissima consunzione col mese che svanisce, la luna stanca che si sfa in rugiada. In fondo, delicate arborescenze appena mosse nella penombra, e l’erba odora forte, accanto al petto e agli occhi pieni di lacrime, forte come in quei giorni, come l’angoscia per l’offesa alla giustizia e alla libertà.

 

Per una ristrutturazione dell’edificio, avvenuta molti anni dopo, la scritta 1944: FAIER è entrata nel nulla.

[Andrea Zanzotto1944: FAIER” (1954), in “Sull’altopiano e prose varie”]

 

 

 

 

 

 


[Questo brano di Zanzotto sarebbe da leggere ad alta voce. E qualsiasi altra parola potessi aggiungere ora impallidisce, questa mattina, 25 aprile 2012.

“Ha voluto fosse scritto così, il contadino vecchio sulla casa ricostruita dopo la guerra; che fosse fermato l’urlo com’era uscito dalla gola dell’incendiario: « faier», in quel giorno …”
Dico soltanto che non vorremmo mai più dover scrivere così, sulla facciata di nessuna casa. Ma ricordare ogni giorno, perchè non si ripeta l’urlo, mai più.
Soprattutto perché sappiamo che nel mondo continua a ripetersi, ogni giorno.

Anche perchè: “il fascismo non sempre porta la divisa. Il fascismo del pensiero è alquanto uniformemente distribuito, e dobbiamo farci i conti a prescindere dal ruolo sociale. Essere “fascisti” è la cosa più semplice che chi usa poco il pensiero possa essere, in quanto presuppone una logica binaria (“noi-loro”, p.e.) e riduzionista.” (da un commento anonimo, su fb. di questa mattina).
Perché purtroppo  questo “chi” potrebbe essere in ognuno di noi.]

 

2 pensieri riguardo “1944: FAIER”

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